Hamas vince la sfida della comunicazione: se i media lavorano con le veline dei terroristi

Quando Silvio Pellico scrisse e pubblicò “Le mie prigioni”, un Generale austriaco affermò che quel libro era costato all’Impero asburgico come una sconfitta in battaglia. Non sono in grado di sapere se il governo israeliano si renda conto dell’impatto che ha sull’opinione pubblica la tragedia di Gaza e di come Hamas stia vincendo la sfida della comunicazione, con la rappresentazione di un popolo stremato non solo per i combattimenti in corso, ma anche per la fame usata come prosecuzione della guerra con altri mezzi. I media – di sicuro quelli italiani – ormai lavorano con le veline di Hamas. E lo fanno come se fosse un comportamento normale.

Proviamo ad analizzare il messaggio che ci viene proposto, non solo nelle fumerie d’oppio dei talk show di La7, ma ormai in tutti i tg: Israele e gli Usa si sono intromessi nella distribuzione del cibo al posto dell’Onu (leggi: di Hamas), ma lo fanno con mezzi e strutture inadeguate costringendo migliaia di palestinesi a concentrarsi nei pochi centri attrezzati, intorno ai quali devono affrontare il cecchinaggio dell’Esercito israeliano. Così presentata, la cosa è inaccettabile e il governo israeliano deve fornire la sua versione dei fatti, soprattutto quando è la stampa israeliana a darvi credito. C’è però una circostanza che nessuno vuole notare: i dati forniti all’opinione pubblica provengono da Hamas, dal ministero della Sanità se si tratta di caduti nel procurarsi il cibo, dalla Protezione civile per quanto riguarda le vittime dei bombardamenti. Il fatto è che – nonostante le numerose televisioni presenti – nessuno è fino ad ora stato in grado di riprendere un soldato israeliano mentre spara sulla folla.

Ma Israele ha il diritto di proibire ai suoi nemici di entrare in possesso degli aiuti provenienti dalla solidarietà internazionale o no? È questa una prerogativa prevista persino dalla IV Convenzione di Ginevra. Quanto alle trasmigrazioni da un capo all’altro della Striscia, questi cortei, spesso a dorso d’asino, costituiscono un adempimento alle norme del diritto internazionale che impone di avvertire le popolazioni civili in vista di un’azione militare in una zona occupata: un avvertimento che Putin ignora, in Ucraina, senza sollevare particolari turbamenti. Alla fine dei conti, bisognerà pur ammettere che ad Hamas si riconoscono tutte le giustificazioni, mentre nel caso di Israele si nega persino l’evidenza. Ormai il pogrom del 7 ottobre non viene neppure ricordato come se fosse stato davvero un’azione di resistenza, magari un po’ brutale. In quell’occasione, i terroristi rapirono degli ostaggi come strumento di ricatto verso il governo israeliano. Questa infame linea di condotta non è mai stata messa seriamente in discussione, come se fosse normale mercanteggiare su civili inermi.

Nessuno in Occidente ha il coraggio di ripetere l’anatema del vecchio Abu Mazen contro l’organizzazione terroristica, i cui militanti non soffrono la fame: “Figli di cani! Restituite gli ostaggi e deponete le armi!”. Di Benjamin Netanyahu e dell’Idf, un giorno si dirà ciò che Winston Churchill affermò dopo la Battaglia di Inghilterra: “Mai, nel campo dei conflitti umani, così tanti dovettero così tanto a così pochi”. Israele, con le sue forze, ha cambiato la faccia del Medio Oriente, mandando a gambe all’aria regimi sanguinari, come in Siria; affrontando le bande armate al soldo dell’Iran in Libano e in Yemen e colpendo insieme agli americani il programma nucleare degli ayatollah. Tutto ciò, preservando il processo di normalizzazione dei rapporti con gli Stati arabi (indifferenti ai problemi dei palestinesi).

La vicenda dell’Iran fortunatamente si è chiusa prima che la sinistra finisse per schierarsi con i Guardiani della Rivoluzione. È il caso, però, di tener conto del variare delle posizioni con cui il kombinat mediatico-politico-(sub)culturale di una certa sinistra ha seguito la breve guerra israelo-iraniana. All’inizio tutti si sono sbracciati per stigmatizzare l’assalto alle basi nucleari. Adesso sembrano contenti perché, in fondo, con quell’operazione è probabile che Trump abbia toppato e il regime sia riuscito a mettere al sicuro buona parte dell’uranio arricchito.

Intanto all’interno dell’Ue è venuto alla ribalta un nuovo eroe: Pedro Sánchez. Racconta la leggenda che i soldati del Cid Campeador ne rivestirono il cadavere dell’armatura, lo montarono su Babieca, il fedele cavallo di battaglia, e lo fecero uscire dalle mura; il che bastò a mettere in fuga i moros che assediavano la città. Quella parte di Europa pro-Pal e contraria al riarmo sta tentando la medesima impresa con un altro leader (politicamente) defunto: il premier socialista spagnolo, colui che ha osato dire “no” al 5% di Trump, accusare Israele di genocidio e riconoscere il fantomatico Stato di Palestina.