Hiroshima, 75 anni fa la bomba che distrusse tutto: era la città perfetta per provare l’atomica

La città fu scelta perché era perfetta. Hiroshima era una intatta città di provincia che scandiva il suo tempo. Quando il fat boy, la bomba bianca obesa lasciò la placenta del suo aereo, era proprio il momento in cui i bambini in uniforme baciavano le mamme con la merenda nello zainetto. Fat boy volava come un greve fiocco di neve come Humpty Dumpty che si sarebbe frantumato in milioni di atomi furiosi seguiti dal nulla. Mai era accaduto che il nulla occupasse il tutto. Era stato al più un concetto filosofico, ma nessuno aveva ancora visto l’anti-essere sostituirsi all’essere. Non si vedevano, dopo il lampo, feriti o squartati i brandelli insanguinati dei 93 mila che si dissolsero col primo botto. Erano semplicemente mai esistiti, salvo alcune scarpe.

Dove c’era la bambina seduta con lo zainetto, ora restavano due ombre, la sua e dello zainetto. Degli edifici annullati qualcosa restava di acuminato e contorto. Ma non si coglieva pianto, né stupore, perché il nulla non ha suono. Prima della fatale decisione, una direttiva americana aveva diffuso la nuova notizia secondo cui la popolazione civile giapponese, addestrata a resistere, non andava considerata forza combattente. E che the morale, il morale della gente, era un dichiarato obiettivo bellico per una ragione di contabilità e una di calendario.
La ragione principale era di contabilità: finora ogni battaglia di avvicinamento al Giappone era costata decine di migliaia di vittime, americane e giapponesi con corpo a corpo mai conosciuti nella storia militare perché per i giapponesi era impossibile arrendersi. Si era visto a Iwo Jima, a Guadalcanal, Tarawa Midway, Leyte, Okinawa. Per arrivare a sconfiggere e occupare il Giappone sarebbero occorsi almeno un altro mezzo milione di inglesi e un milione di americani, più due milioni di giapponesi, disse Winston Churchill quando oramai la bomba era stata sganciata.

Valeva la pena? Il mondo da allora è diviso ed è difficile che qualcuno approvi l’uso delle bombe atomiche, perché è moralmente scorrettissimo. Proverò io ad azzardare, anzi a ricordare, che dal 1945 in poi non ci sono state più guerre. Non le piccole infinite guerre regionali, ma le grandi sanguinarie guerre che hanno per secoli devastato l’Europa o la Russia, il Giappone o la Cina. Ci fu la pace della Belle Époque fra il 1870 e il 1914 ma furono solo 44 anni, un record. Oggi siamo a 75 anni di pace e ancora dura. Le grandi guerre che hanno insanguinato il pianeta sono cessate, tutte. E chi sostiene che le guerre siano egualmente molte e altrettanto crudeli, non conosce la storia né la geografia. Le due guerre terminate con le esplosioni atomiche e poi con l’equilibrio del terrore fra superpotenze – anche se tu mi uccidi, io prima di morire farò in tempo ad uccidere te – l’Europa, l’America, l’Asia, la Cina, non hanno avuto che guerre limitate. Certo, ci furono la Corea e il Vietnam. Ma il numero delle vittime fu – in proporzione – irrilevante.

«Noi non abbiamo paura della bomba» cantavano i Giganti negli anni Settanta e invece dobbiamo soltanto a quell’ordigno il fatto che siamo per lo più vivi e complessivamente in discreta salute, tanto che l’età della vita umana è cresciuta enormemente fino a far crollare le riserve delle assicurazioni. E gli scienziati? Furono soddisfatti di quel che fecero? Chi sì e chi no. Il nostro Enrico Fermi, fuggito in Usa con una moglie ebrea soggetta alle leggi razziali di Mussolini del 1938, diventò un protagonista del progetto Alamo ed era continuamente scortato, vivendo una esistenza misteriosa e segreta. Chi condanna l’America sostiene in genere che gli Stati Uniti decisero di usare la bomba per spaventare Stalin e rimetterlo in riga. Oggi possiamo dire che già tre anni prima, nel 1942, Stalin era stato dettagliatamente informato del progetto americano dal fisico Iuli Khariton e ordinò immediatamente al suo capo della polizia segreta, Lavrentij Beria, di arruolare tutti gli scienziati atomici sovietici fra cui Igor Kurciatov, Andrei Sakharov e lo stesso Khariton. Ma il primo materiale fu fornito loro dallo scienziato americano Klaus Fuchs che la­vorava al “progetto Manhattan” ma era un informatore russo.

Era avvenuto un cambio etico e militare. Era cioè prevalsa la linea – in entrambi gli schieramenti – secondo cui il morale dei civili è un obbiettivo militare. Poiché i giapponesi erano mostrati mentre si esercitavano alla scherma con i bastoni contro l’invasore, l’amministrazione americana dichiarò la popolazione giapponese obiettivo militare. Prima di Hiroshima inglesi e americani avevano deciso di cancellare la città tedesca Dresda. Il piano fu studiato dal capo dell’aviazione inglese Harris, detto poi Bomber Harris, o Butcher Harris, il macellaio. Tre ondate separate di aerei si avvicendavano sulla città: la prima scoperchiò le case, la seconda le riempì di combustibile e la terza portò la temperatura a trentacinquemila gradi e la popolazione- come dimostrò la commissione d’inchiesta dopo la guerra – ne fu liquefatta. Secondo gli inglesi morirono solo 35 mila tedeschi, ma secondo i tedeschi i morti furono 135 mila, molti di più di Hiroshima e Nagasaki. I morti complessivi del Giappone in cinque anni di guerra fra civili e militari superarono di poco i due milioni mezzo.

L’incidenza delle due bombe atomiche fu irrilevante, non così l’effetto esistenziale, distruttivo e depressivo che travolse l’intera umanità.
Molto di più della bomba atomica avevano terrorizzato il Giappone i bombardamenti di Tokyo usando bombe incendiarie che distruggevano una città di carta, legno, papiro e decorazioni laccate. Stalin, più che sorprendersi per le notizie che gli arrivavano sull’uso delle atomiche americane si preparò ad attaccare l’esercito giapponese in Manciuria e riconquistare le isole contese fin dalla guerra del 1905. A Stalin interessava la sua parte di bottino nel Pacifico, dopo essersi fatto riconoscere a Yalta ciò che aveva già ottenuto da Hitler: Europa orientale, Paesi baltici, Romania, Bessarabia e una mano sui Balcani grazie al maresciallo Tito, ancora suo numero due. I giapponesi spera­vano invece di poter usare il canale sovietico per ottenere una pace onorevole e per questo il ministro degli Esteri del nuovo governo Shinegori Togo fece sapere a Stalin che il Giappone av­rebbe resti­tuito la parte meridionale dell’isola di Sakhalin e le Curili settentrionali. Le risposte di Mosca furono vaghe e includenti.

Il governo di Tokyo capì che non esisteva più spazio per giocare alla politica: il governo giapponese ignorava che a Yalta Roosevelt aveva pro­messo a Stalin non soltanto la parte meridionale dell’isola di Sakhalin, l’arcipelago delle Curili, il porto di Dairen ma anche la base navale di Port Arthur in cambio dell’intervento con cui chiudere la guerra e garantire all’opinione pubblica una ridu­zione del massacro delle truppe americane. Stalin capì e agì da uomo ordinato e onnipotente: trasferì con la Transiberiana mezzi e materiali per l’invasione della Manciuria e quando il ministro degli esteri giapponese Togo chiese all’ambasciatore sovietico Jakob Malik di procurare un incontro fra Molotov e il principe Konoye, cugino dell’imperatore ed ex capo del governo si capì che non tirava aria.  Uno dei prezzi della bomba atomica, aggiuntivi per il Giappone era che adesso doveva tirarsi addosso anche la pedata sovietica per pagare tutti i conti in sospeso. E così fu.

Negli Usa, prima ancora del lancio della bomba, si faceva sentire il partito favorevole a una resa onorevole per il Giappone: Joseph Grew e il sottosegretario alla guerra John McCloy premettero su Truman affinché rassicurasse i giapponesi sul fatto che non intendevano privarli del sistema im­periale: «L’impiccagione dell’imperatore equivarrebbe per loro alla crocifissione di Gesù Cristo». Roosevelt a questo punto istituì un organismo militare e scientifico: l’interim Committee formato da Robert Oppenheimer, Ernest Lawrence, Arthur Compton e dal ministro della guerra Henry I. Stimson, più altri cin­que politici. Dieci in tutto. Leo Szilard era favorevole a una azione dimo­strativa anziché distruttiva sul Giappone. I prigionieri di guerra americani in Giappone, per esempio nel campo di Hokkado, furono avvertiti di di non evadere per non subire rappresaglie in seguito ai terri­bili bombardamenti con i B-29. Furono anzi organizzati “bombardamenti” sui campi con lancio di vettova­glie, abiti e medicinali per i prigionieri, con missioni di oltre 4.000 miglia per un totale di ore di volo di h.20 e 45’ sul Pacifico.

Il 17 giugno del 1945, l’italiano Enrico Fermi entrò nell’Interim Committee destinato a consigliare i politici sull’uso dell’arma atomica. La commissione delegò i suoi poteri a una sotto­commissione, lo Science Panel formata da Fermi, Oppenheimer, Lawrence e Arthur Compton. Fermi si trovò di fronte un docu­mento stilato nel suo stesso laboratorio a Chicago da James Franco e da un gruppo di ricercatori, che proponeva un uso non distruttivo della bomba: darne vi­stosa dimostrazione ai giapponesi per convincerli alla resa. L’opzione opposta era raccomandata dal generale Leslie Groves, capo del Progetto Manhattan, il quale chiese il bombardamento immediato di una città giapponese. Fermi e i suoi valutarono a fondo e poi si chiamarono fuori dalla decisione di bombardare o no: «Riconosciamo l’obbligo di fronte alla nazione, che l’arma debba essere usata per salvare vite americane. Per quanto riguarda questi aspetti generali dell’impiego dell’energia atomica, è chiaro che noi, in quanto uomini di scienza, non godiamo di alcun diritto d’au­tore… non rivendichiamo una particolare competenza nella soluzione dei problemi poli­tici, sociali militari che sorgono con la scoperta dell’energia atomica». Alla fine di giugno aggiunsero: «Non possiamo suggerire alcuna dimostrazione tecnica che abbia una qualche probabilità di far finire la guerra; non vediamo alcuna soluzione alternativa accettabile a quella del diretto uso militare».


Più tardi, nel febbraio 1947 su Harper Bazar l’ex ministro della guerra Henry Stimson scriverà: «Non ci sarebbe stato nulla di più controproducente di una dimostrazione che si concludesse con un buco nell’acqua. E, inoltre, non c’erano bombe atomiche da sprecare». Gli echi del dibattito arrivarono a Tokio dove l’imperatore Hirohito chiese al suo governo di intavolare trattative per finire alla guerra.
Lo scienziato ungherese Leo Szilard scrisse allora da Chicago a Teller una lettera firmata anche da altri scienziati in cui insisteva per un uso dimostrativo dell’atomica, prima di quello di­struttivo. Teller rispose che Robert Oppenheimer non era d’accordo, perché la decisione spettava soltanto al governo e non agli scienziati. Teller in seguito disse che ignorava che lo stesso Oppenheimer, insieme a Enrico Fermi, Arthur Compton e Ernest Lawrence facevano parte di un comi­tato ristretto che aveva lo scopo di fornire consulenza al presidente sull’uso dell’arma atomica. E che per “uso dimostrativo” intendeva un’esplosione a dieci chilometri d’al­tezza sulla baia di Tokio, senza creare danni e davanti agli occhi dell’imperatore: «Gli scienziati ne parlarono fra loro, ma Oppenheimer non volle sottoporre l’opzione al presidente, per­ché pensava che in questo modo la guerra sarebbe finita prima».

Compton e Lawrence si dichiararono contrari al lancio immediato. Il 16 luglio la prima bomba atomica sperimentale esplode nel deserto del Nuovo Messico ad Alamogordo nella pianura di Jornada del Muerto (cammino del morto) e la bomba sperimentale viene chiamata Trinity.  Fermi dice: «Potrebbe darsi che l’esplosione non si possa verificare, e può darsi che l’esplosione non si ar­resti e bruci tutto il pianeta. In ogni caso avremo raggiunto un importante ri­sultato scientifico». Oppenheimer mormorò alcuni versi di un poema sa­cro indù, Segre pensò all’apoca­lisse e altri si abbandonarono a considera­zioni sul futuro dell’u­manità. La notizia venne trasmessa a Truman che si trova a Potsdam e che la sus­surrò a Churchill, mandandolo in visibilio. A Stalin il presidente ameri­cano disse: «Abbiamo avuto notizia di una bomba di nuovo tipo». Stalin annuì distratta­mente, es­sendo ben informato del progetto Manhattan e dei fisici di Los Alamos da due scienziati: il fisico Klaus Fuchs e il biochimico Harry Gol ed altri. Stalin con al­trettanta noncuranza rac­contò dei tentativi giapponesi per ottenere una capitolazione.
Truman si finse vagamente stupito, essendo perfettamente informato grazie al sistema “Magic” di intercettazione e decrittazione.
Il giorno successivo ci fu la Dichiarazione di Potsdam, di Truman, Stalin e Churchill, un ul­timatum al Giappone letto per radio e non consegnato per vie diplomatiche. Il go­verno di Tokyo è sconvolto dall’umiliazione di questa procedura e temporeggia. Poi replica con una dichiarazione tipica­mente orientale e involuta di Suzuki a una confe­renza stampa, che viene scambiata per un rifiuto.

Alla conferenza di Potsdam Stalin informa in modo vago gli alleati degli approcci giapponesi per arrivare alla pace e di altri condotti attraverso la Svezia. Ormai Truman, succeduto a Roosevelt, sa di avere l’atomica e di poter piegare il Giappone senza far scendere in campo l’Urss con cui non intende con­trarre né pagare debiti. La sua linea è semplice: l’imperialismo giapponese è comunque battuto, quello sovietico deve essere bloccato invece nella sua fase nascente. Stalin av­verte il cambiamento di umore americano e decide di affrettare i tempi dell’invasione in Manciuria. Intanto, la bomba era stata recapitata sull’isola di Tinian alla base del reparto di volo. Truman era ormai deciso ad ottenere per via atomica la resa incondizionata di Tokio senza dover passare per i favori di Stalin. Il generale Eisenhower e l’am­miraglio Leahy si dichiarano contrari all’uso «perché il Giappone è ormai sconfitto». Degli scien­ziati 57 sottoscri­vono il “rapporto Frank” con cui si dichia­rano contrari all’uso della bomba anche da loro creata.

Sul fronte opposto, due scien­ziati volevano l’uso della bomba per poterne valutare gli effetti. Robert Oppenheimer e Enrico Fermi dissero: «Una distruzione nel deserto non significa nulla». Hiroshima fu scelta per­ché intatta e quindi ec­cel­lente test per mi­surare le distruzioni.
Fu usato l’ordigno “Little boy” traspor­tato dall’”Enola Gay” con uranio 235, mentre “Fat Man” destinato a Nagasaki era al plutonio. La seconda bomba fu lanciata per poter esaminare le differenze dei due diversi modelli. Mentre an­cora la palla di fuoco ardeva nella valle di Urakami a Nagasaki, Truman dichia­rava: «Abbiamo impiegato la bomba ato­mica per abbre­viare il conflitto… preghiamo Dio di illuminarci nell’uso di questo stru­mento, se­condo le sue intenzioni». Churchill dirà: «E’ stato un gesto necessario per salvare 500mila soldati inglesi e un mi­lione e mezzo di americani». Lo scienziato inglese Rotblat dirà: «Credo in­vece che questi numeri fossero assolutamente esagerati. E che gli stermini di Hiroshima e Nagasaki servirono soltanto a impressionare i russi. Lo ammise il gene­rale Eisenhower alla fine della guerra e allora io mi sentii particolarmente felice di aver abbandonato il pro­getto».