A sostenere gli scontri oltre agli aderenti al “Fronte” e ad “Avanguardia Nazionale”, i giovani delle cosche reggine che non si accontentano più di essere parcheggiati nell’anticamera e negli scantinati del “potere”. Chiedono di entrare nel salotto buono della città. Il principe Borghese indica ai più “fidati” tra i dirigenti della rivolta e ai capi cosca un obbiettivo a breve scadenza: il golpe militare programmato per la notte del 7 dicembre 1970 quando uomini armati penetrano, nei sotterranei del ministro dell’Interno. Il golpe viene bloccato prima dell’alba e la deriva eversiva e “fascista” verso cui era stata spinta la rivolta di Reggio causa un contraccolpo inaspettato in difesa della democrazia. Il 4 aprile del 1971 viene convocato nel teatro comunale il consiglio regionale della Calabria per l’approvazione dello Statuto. È una prova di forza anche dal punto di vista di un possibile scontro fisico. Il “comitato d’azione” proclama lo sciopero e la mobilitazione generale. Le forze antifasciste sanno bene di non poter contare sulle forze dell’ordine per la difesa della loro incolumità e per il loro diritto a manifestare liberamente. Nonostante ciò migliaia di persone confluiscono verso il teatro comunale. Alcuni verranno bloccati dai “neofascisti” nelle periferie cittadine, molti pullman danneggiati saranno costretti a ritornare indietro ma la maggioranza dei militanti antifascisti, raggiungeranno il teatro Cilea. Il “boia chi molla” ha perso in casa. La mobilitazione democratica farà da sponda alla borghesia cittadina intenzionata a rompere con le forze dell’eversione. Alla fine della manifestazione del 4 aprile, i partecipanti rifiuteranno la proposta della questura di defluire dalle porte laterali del teatro e usciranno a testa alta dall’ingresso principale malgrado la grandinata di pietre e monetine lanciate dai ragazzi di Reggio di cui ricordo perfettamente il volto teso e lo sguardo smarrito perché intuivano - e non a torto - di esser stati abbandonati al loro destino. Borghese aveva lasciato l’Italia. La borghesia cittadina avrà i suoi impiegati negli uffici del consiglio regionale. La ndrangheta verrà associata ai lavori del “pacchetto Colombo” e riconosciuta come una “forza” con cui fare i conti. Restano fuori dei nuovi equilibri di potere sia i generosi ragazzi delle periferie cittadine che hanno creduto nella “causa” di Reggio; quanto i loro coetanei che, con altrettanta generosità, si erano schierati contro la deriva “fascista”. Nel 1972, malgrado Reggio sia elettoralmente la città più “nera” d’Italia, i “boia chi molla” non hanno più il controllo della piazza. Il comizio di Pietro Ingrao del 5 maggio e la grande manifestazione sindacale del 22 ottobre, che vede sfilare per le vie di Reggio “centomila” tra metalmeccanici e antifascisti, dimostrano che a Reggio è stata riconquistata la libertà di manifestare liberamente ed esporre le proprie idee politiche. Nel momento in cui bisognava resistere ai “boia chi molla” e contrattaccare, i partiti dell’arco costituzionale avevano solennemente giurato che nel Sud, ed in particolare in Calabria, nulla sarebbe stato più come prima. Finiti i moti nulla di quanto promesso fu mantenuto. La Calabria visse un periodo di autentica “Restaurazione” che andò via via peggiorando man mano che ai “vecchi poteri” venivano associati, sia pure in posizione di assoluta subalternità, i sindacati prima e l’opposizione di sinistra dopo. La “destra” si avvicinava all’area di governo e di sottogoverno fino a farne parte organicamente. La rivolta restava un ricordo da celebrare senza però analizzare e dar spazio alle ragioni vere che avevano spinto i giovani più poveri della città a salire sulle barricate. Per evitare altre “rivolte”, il governo, le banche, la Confindustria, danno la loro disponibilità a “concedere” alla Calabria fondi destinati soprattutto ai lavori pubblici che quasi sempre evaporano tra la distrazione degli organi preposti alla vigilanza. Ma soprattutto vengono “concessi” sussidi e migliaia di assunzioni artificialmente creati nella pubblica amministrazione. Pongono però come condizione “non negoziabile” la salvaguardia d’un sistema di sviluppo che avrebbe condannato inesorabilmente la Calabria al ruolo di colonia interna. È questo il cuore del problema a 50 anni dalla “rivolta”. La “Restaurazione” consentirà ai partiti politici di continuare a prendere i voti ma toglierà alla politica ogni autorità e ogni prestigio a favore dell’alta burocrazia, della magistratura (soprattutto di alcuni pm), delle banche, dei poteri occulti, tra i quali, certamente la ‘ndrangheta. Oggi, a 50 anni della rivolta, la Calabria non fa più notizia se non per le maxi retate che non sono casuali: sono un raffinato strumento di propaganda che un sistema di governo coloniale e mafioso utilizza per legittimarsi agli occhi dei cittadini. A ogni scuola o ospedale che chiude, a ogni giovane che parte, per ogni paese che si svuota si agita dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica nazionale il dramma della ‘ndrangheta che è reale. Ma diventa l’alibi per nascondere il cinismo e gli interessi delle classi dirigenti. La Calabria resta un vulcano dormiente, e non pochi calabresi si augurano un’eruzione democratica che spazzi via l’insopportabile cappa che ha ridotto una terra ribelle in una colonia penale.
I moti di Reggio del 1970, quando la Calabria ridiventò una colonia
