I preti pro-Pal spaccano la Chiesa. Torna l’ombra dell’antigiudaismo

Priests take part in the "Priests against genocide" demonstration in Rome, Monday, Sept. 22, 2025, against the war in Gaza. (AP Photo/Andrew Medichini)

I preti pro-Pal scendono in piazza nella stessa giornata dello sciopero generale indetto per Gaza. È accaduto ieri a Roma, dove la rete “Preti contro il genocidio” ha portato in corteo decine di sacerdoti provenienti da 21 Paesi. Due manifestazioni diverse, ma intrecciate dalla stessa parola d’ordine: genocidio. La marcia dei preti si è aperta nel pomeriggio con una preghiera nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, per poi proseguire fino al Caravita. Tra i promotori spiccano figure note dell’attivismo cattolico come padre Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti, monsignor Giovanni Ricchiuti, monsignor Domenico Mogavero.

Il nodo che fa discutere è proprio la parola scelta: genocidio. Non è un dettaglio semantico, ma una frattura aperta nel mondo cattolico. La Santa Sede, e in particolare Papa Leone XIV nella sua prima intervista, ha condannato senza mezzi termini l’orrore della guerra ma ha evitato di usare quel termine: «La parola genocidio viene usata sempre più spesso. Ufficialmente, la Santa Sede non ritiene che al momento sia possibile fare alcuna dichiarazione al riguardo». Un linguaggio prudente, che riflette la consapevolezza delle implicazioni giuridiche e diplomatiche di un’accusa così grave. I preti della rete pro-Pal invece hanno scelto di forzare la mano. Parlano apertamente di genocidio e lo fanno con un’immagine che non può passare inosservata. La locandina dell’evento mostra una donna avvolta in un mantello azzurro che sorregge un corpo esanime (entrambi recano l’aureola), come in una Pietà michelangiolesca, accompagnata dalla scritta in inglese: Christ died in Gaza. Il messaggio è inequivocabile: Cristo muore di nuovo, questa volta sotto le bombe israeliane.

È qui che la protesta religiosa sconfina in un terreno pericoloso. L’immaginario utilizzato riattiva antichi stilemi antigiudaici che il Concilio Vaticano II, con la Nostra Aetate, aveva cercato di superare definitivamente. Rappresentare i palestinesi come il Cristo crocifisso e Israele come i carnefici significa ribaltare la tragedia della Shoah e riproporre, in chiave aggiornata, l’accusa di deicidio che per secoli ha alimentato pogrom, discriminazioni e persecuzioni contro gli ebrei.

In un’Europa dove gli episodi di antisemitismo si moltiplicano – tra boicottaggi, scritte infamanti, minacce e aggressioni – un simile linguaggio visivo rischia di essere una miccia ulteriore per un odio che può diventare incontenibile. Non è più solo questione di schierarsi per la pace o per la giustizia: è il ritorno di antiche narrazioni teologiche che mettono gli ebrei sul banco degli imputati della storia. La manipolazione è evidente, a danno anche delle indicazioni del Concilio. E il contrasto si manifesta in tutta evidenza: mentre la Santa Sede si muove con cautela, nel solco della tradizione diplomatica e del Concilio, una parte del Clero sceglie la radicalità, affiancandosi di fatto a slogan e parole d’ordine che hanno animato anche i cortei pro-Pal. Lo sciopero e la marcia dei preti hanno finito così per convergere in un’unica rappresentazione: Israele assimilato a un carnefice, Gaza come nuovo Calvario.

La domanda che resta aperta è quale prezzo pagherà la Chiesa. Una comunità divisa al suo interno, tra prudenza istituzionale e attivismo militante, rischia di minare il percorso di dialogo e riconciliazione con l’ebraismo, che rappresenta una delle acquisizioni più alte del Concilio. La frattura che si è consumata a Roma non è solo tra manifestanti e governo, ma attraversa il cuore stesso del cattolicesimo contemporaneo.