I segreti del successo: le leggi di snobismo e mercato

Samuel Romano, il frontman dei Subsonica, durante una puntata dell’ultimo X Factor ha avvertito un cantante ventunenne esordiente: “quando sarai là fuori, l’unica cosa che ti chiederanno sarà di avere un look artistico”. Romano di musica se ne intende, ha alle spalle vent’anni di attività e di ricerca, dunque con quelle parole intendeva probabilmente invitare il ragazzo ad acquisire uno stile e una personalità precisa; ma l’espressione “look artistico” mi ha colpito perché è figlia di una tendenza, o meglio di un andazzo, che sta diventando invasivo e va ben oltre la musica: quello di comprimere un autore (o una sua opera) in una sigla, uno slogan, una formula che lo caratterizzi e lo renda facilmente riconoscibile.

Come se il prodotto da comunicare e consumare fosse l’autore stesso coi suoi tic, le sue eccentricità, le sue esternazioni: il suo look, appunto. Si tratta di una semplificazione pubblicitaria che è sempre esistita: Morandi pittore delle bottiglie, Van Gogh e l’orecchio tagliato, George Stubbs e i cavalli, Van Honthorst specialista dei notturni eccetera. Ma è nuova l’idea che la sigla possa fare a meno dell’abilità e del talento, surrogandoli con la popolarità e l’estro nel sapersi vendere come “personaggio”. Un editor letterario intelligente lamentava l’altro giorno, a proposito di un romanzo d’esordio ricco di grazia, “dire che il ragazzo è bravissimo e scrive bene non basta più a convincere i librai, ci vuole qualcosa che li colpisca, che presenti il libro come un piccolo caso”. Convincere i librai è importante perché è dalle loro prenotazioni che ormai si decide la tiratura, da come i librai ti percepiscono dipende in quante copie sarai distribuito.

Anche in letteratura è sempre accaduto che fattori esterni (uno scandalo, un processo, una congiuntura politica, una famiglia nobile che querela) determinassero la voga momentanea di questo o quel libro, opere memorabili o illustri ciofeche – ci pensava poi il tempo a rimettere a posto la gerarchia dei valori. Ma è proprio il tempo quello che adesso sembra mancare a chi deve diffondere e giudicare le opere, che si tratti degli editori, dei produttori musicali, dei galleristi d’arte o perfino dei critici militanti sui giornali e sui blog. Tutto si brucia in poche settimane, dopo un mese l’opera è già vecchia; i profitti o i commenti devono essere fatti subito, non ci si può permettere di investire in perdita, o di sciupare una battuta pungente, su un’opera che semmai verrà apprezzata dai posteri. Gli editori sono in caccia di youtuber o instagrammer che nella gara di “opera d’arte percepita” possano garantire molte copie prenotate sulla fiducia, prima ancora che l’opera esca, in modo da balzare già nei primi giorni in testa alle classifiche.

Alcuni artisti fanno della rapida deperibilità dell’opera il loro tema, altri ne prolungano la durata con sinergie che favoriscano il rimbalzo su piattaforme diverse: dal romanzo alla serie televisiva, dalla musica al video e al cinema, dalla pittura al fumetto e al graphic novel. In questa danza euforico-disperata, e isterica dal punto di vista commerciale, è ovvio che le formule immediatamente riconoscibili, i “look artistici”, siano più funzionali rispetto a opere e ad autori che un profilo lo stanno ancora cercando, o stanno approfondendo una ricerca intricata di contraddizioni: la complessità richiede tempo.


La questione è quella eterna del rapporto tra arte e mercato: tra lo snobismo supercilioso di chi immagina una proporzionalità inversa (quanto più un’opera è popolare, tanto meno vale) e il populismo di chi sostiene una proporzionalità diretta (le vendite come testimonianza del valore). A parte le nuove forme di mecenatismo, o le sovvenzioni statali, il mercato alla fine pare che abbia vinto senza combattere: quando in metropolitana si legge, su giganteschi manifesti, che Despacito è stato ascoltato 2,3 miliardi di volte su Spotify, sono pochi a pensare che quel trionfalismo non comporti anche un’affermazione di valore. Se un regista dichiara in tivù che il proprio film ha guadagnato venti milioni di euro nella prima settimana di programmazione, l’applauso che segue è un riconoscimento alla qualità dell’opera. Bisognerebbe avere la lucidità di riconoscere che, storia della cultura alla mano, il successo di un’opera e il suo valore artistico sono variabili indipendenti: esistono opere molto popolari che sono anche belle, opere popolari ma orrende, opere poco apprezzate dal pubblico che sono diventate del classici e opere orrende che fin dall’inizio non hanno avuto nessun riscontro di pubblico.

C’è pure una versione “di sinistra” che tende a trasformare la diffusione di un’opera nel suo valore: è quella di chi pensa che sia compito dell’arte raggiungere il maggior numero di persone per influire positivamente sul costume e sulle idee. E’ curioso che questi nemici dell’élitarismo in estetica siano poi contrarissimi alle forme di propaganda che abbagliano le masse con retoriche roboanti; eppure c’è un’aria di famiglia tra i comizi o i tweet acchiappa-consenso e il bisogno di riassumere lo spessore di un’opera d’arte in una formula elementare, facile da apprendere e da trasmettere. Il bello non si decide a maggioranza, come neppure il vero (Galileo Galilei ne è testimone).

In democrazia la maggioranza decide chi sarà il leader, il mercato incorona le star; ma poteri non democratici (la tecnologia, la finanza, l’emotività dell’inconscio collettivo) cercano di far credere che le star e i leader abbiano dalla loro parte la bellezza e la verità. Non è bene che il giudizio si trasformi in venerazione (i fans !), o in quel meccanismo di profezia che si autoavvera per cui compriamo il libro di cui tutti parlano, ascoltiamo la musica che tutti ascoltano, ripetiamo le frasi che tutti (quelli della nostra fazione) ripetono. Sia la ragione del vero che il sentimento del bello devono venire a patti con la forza del numero, ma giocando d’astuzia (che poi si chiama pedagogia) e senza soccombervi ciecamente.