Ci sono due fattori che sembrano ormai assodati nelle analisi sulle cause del populismo: il primo è una disuguaglianza dei redditi e delle opportunità maggiore rispetto agli anni Ottanta e che ha colpito larghe fasce della popolazione; il secondo è il vuoto di proposte nel campo del riformismo progressista, che aveva sempre fatto dell’uguaglianza il faro della propria azione politica, suscettibili di aiutare i cittadini a uscire dalla trappola della povertà e dell’esclusione.
I due fattori sono legati: a una disuguaglianza – sociale ed economica – crescente non ha corrisposto una politica in grado di affrontarla. Le disuguaglianze pesano e il disagio sociale che ne consegue si riflette nella disaffezione verso la politica, che non sembra tenerne conto. Ma ciò che viene sottolineato dagli osservatori sono il risentimento contro le élites e le ansie provocate dall’insicurezza economica, l’immigrazione, la paura del “diverso”. E trasformare ansie e risentimento in consenso politico è la cifra dei populismi, da sempre. Sono le vecchie e nuove disuguaglianze a essere un motore potente della protesta contro un establishment che riserva i benefici del cambiamento tecnologico e impiega i proventi delle imposte che derivano dai maggiori profitti a vantaggio dei “pochi” e a svantaggio dei “molti”. Perché non sono solo i poveri a subire il disagio dell’insicurezza e della precarietà, ma anche le classi medie e tutti coloro che si sentono esclusi dai “vantaggi della globalizzazione” e della rivoluzione tecnologica che incombe. Le crescenti disuguaglianze – economiche, di istruzione, di condizione sociale – e l’insorgere di una “classe dimenticata” sono il substrato del populismo.
Il riformismo progressista
A questa analisi sembra però mancare qualcosa. Perché, se è vero che l’aumento della disuguaglianza è un fattore specifico all’origine del consenso populista, la domanda che sorge non può allora che essere: perché il riformismo progressista – che dell’uguaglianza ha sempre fatto una bandiera – non ha saputo rispondere al disagio e al malessere, quando non alla rabbia e al risentimento, che ne derivano? La risposta a questa domanda ha naturalmente molto a che fare tanto con la politica quanto con l’economia (e la politica economica), ma ha bisogno di essere completata chiamando in causa la dimensione emotiva, simbolica e passionale della politica. Le passioni esistenziali come la paura e la speranza, la frustrazione e il desiderio di appartenenza, l’identificazione includente associata all’esclusione del “nemico” sono, attraverso i simboli politici che prendono corpo, in senso letterale, nella figura di alcuni leader, potentissimi fattori di mobilitazione. Alle motivazioni sorte da interessi materiali si associano idee e passioni simbolicamente compensative rispetto a circostanze materiali che generano frustrazione e risentimento.
Il fattore di restituzione
Alla radice del successo raggiunto da spregiudicati leader populisti come Donald Trump e J.D. Vance non c’è solo il senso di un’ingiustizia subita, di un’invettiva senza parole che richiede per alimentarsi di fare ricorso a sentimenti forti ed elementari: odio, amore, terra, radici, fondamenti. C’è anche, elemento che non sempre viene debitamente preso in considerazione da osservatori e analisti, un fattore di restituzione, certo simbolica, di una dignità perduta e di uno status finalmente riconquistato. Questo elemento simbolico non richiede necessariamente una controprova concreta e materiale per avere valore, e può anche essere dissociato dalla condizione esistenziale, ossia dall’identità sociale dei cittadini, ma rappresenta uno straordinario fattore di identificazione, poiché restituisce valore e dignità a chi si considera ignorato o sottovalutato dalle élite dominanti.
Tra interessi e sogni
Risponde, cioè, a un bisogno emotivo di appartenenza che diventa adesione incondizionata a un leader inteso come il portavoce di questa esigenza e la cui persona si configura come la rappresentanza simbolica, diretta e non formale, del popolo. A tutto ciò si associa, inoltre, un progetto, irrealistico quanto si vuole, ma dotato di una straordinaria forza mobilitante, che assume tratti quasi messianici e che nelle parole di Trump è stato battezzato con l’enfatica locuzione di una “nuova età dell’oro”. Un orizzonte ideale che sembra ricordare il “nuovo miracolo italiano” di Silvio Berlusconi. Qual è la lezione che se ne può ricavare? Che la politica non vive solo di interessi e di aspirazioni materiali, ma anche di sogni, desideri e speranze. Certo, molti di questi prima o poi si infrangeranno sugli scogli della realtà, ma intanto fanno vincere le elezioni. “It’s the economy, stupid”, si diceva, a decidere delle scelte elettorali. Forse c’è anche dell’altro.
