Non si può ripensare il ‘69 senza il ‘68. Sessantotto – sessantanove due anni un solo evento. È stato chiamato il secondo biennio rosso, con più di una ragione. Il primo era stato quel 1919-1920 che in Italia finisce a Torino con l’occupazione delle fabbriche il settembre del 1920, quando sembra di essere stati alle soglie dell’insurrezione. Più vicino, molto più vicino, esso aveva avuto il Maggio francese, quando, di nuovo, tutto era sembrato possibile; poi così ha preso quella forma che ne ha consentito la definizione di Maggio strisciante. Un autunno caldo che dura anni e anni e che scorre tra rovesci e rapide per quasi un decennio. Studenti e operai ne sono i protagonisti assoluti. Edgar Morin, nel suo recente libro, Maggio ’68. La breccia, vede nella contestazione studentesca una chiamata al protagonismo operaio. Egli scrive, infatti, che «l’occupazione della Sorbona effettuava e mimava un atto fondamentalmente operaio» e che «la rivolta studentesca era permeata di ideologia operaista». E ancora: «Questa sorprendente rioperaizzazione della classe operaia, compiuta dagli studenti, ha potuto infine avere effetto solo grazie alla sorprendente desacralizzazione rappresentata dalla presa della Sorbona e dallo stato di isola insorta, di piccola comune affrancata dal potere, che il Quartiere Latino mostrava». Così in Francia, così in Italia. Mettete Palazzo Campana o la Statale, o l’Università di Trento al posto della Sorbona e il risultato è il medesimo. La comune studentesca richiama nell’immaginario l’origine del movimento operaio, rianima i suoi miti fondativi. La centralità operaia è attesa e chiamata. Questo studente e questi operai sono figure sociali precisamente definibili, sono lo studente di massa e l’operaio comune di serie. Il primo è il frutto della stagione nella quale, per la prima volta nella storia del Paese, anche i figli dei lavoratori hanno avuto accesso all’università; i secondi rappresentano il mutamento della composizione di classe, con la affermazione del fordismo-taylorismo e della catena di montaggio. Il panorama sociale del Paese è cambiato. Le due figure sociali hanno una caratteristica in comune. Entrambe vengono considerate dalla cultura e dalla sociologia del tempo inadatte, inidonee al protagonismo.
Quegli studenti appartengono alle prime generazioni della società dei consumi e viene considerato come segnato dalla moda del momento, dai suoi costumi, dai suoi stili di vita, dalla sua colonna sonora, in cui essa si esaurirebbe. Si pensa che lo sciopero nella scuola, se mai accadesse, sarebbe per “Trieste italiana” e la canzone canta di loro come di chi “si è già scordato di Duccio Galimberti”. Belli e integrati. E integrata viene considerata pure la classe operaia. Essa, secondo la tesi prevalente, sarebbe diventata figlia della società opulenta, avrebbe mutato il suo pensiero comune sotto la spinta della società dei consumi. L’ accesso al la rivoluzione dell’automobile, ai beni durevoli, ne avrebbe distrutto con l’autonomia, l’ideologia classista e la propensione al conflitto sociale. Il suo nuovo orizzonte sarebbe stato, sarebbe diventato, quello piccolo borghese; in altre parole, l’integrazione nel sistema. Ancora nel 1967, a pochi mesi dalla rottura del ‘68, questa era l’interpretazione corrente. Ma anche a sinistra la nuova composizione sociale costituiva un problema. L’operaio comune di serie, “l’operaio-massa”, non aveva più le caratteristiche che avevano fatto della precedente figura centrale, l’operaio specializzato, il perno del conflitto sociale e della organizzazione del movimento operaio, il sindacato e il partito, cioè un mestiere che lo rendeva insostituibile nella produzione e una cultura che lo portava a essere, naturaliter, dotato di autonomia e di coscienza di classe.
Questi, invece, erano senza tradizione industriale, senza qualifica, senza istruzione ed erano stati sradicati dalle terre del Sud. Peraltro nelle nuove cattedrali fordiste, da Mirafiori a Billancourt a Detroit, le iscrizioni al sindacato erano le più basse e alla Fiat per un intero ciclo gli scioperi fallivano. C’era chi per tutto il fi nire degli anni 50 e i 60 aveva coraggiosamente resistito (vedere Gli anni duri alla Fiat di Emilio Pugno e Sergio Gravarini) e chi con la nascita dell’operaismo era andato controcorrente, chi, cioè, aveva seminato: una straordinaria ma piccola minoranza. La cifra proposta era l’integrazione e la pace sociale. Accadde invece l’imprevisto. Il biennio ‘68-’69 è, prima di tutto, l’imprevisto. Improvvisamente da una scintilla prende fuoco l’incendio. Gli invisibili, come sempre nei grandi avvenimenti che si costituiscono come eccezione, diventano, di colpo visibili e occupano la scena. Nel secondo biennio rosso ancora una volta, l’ultima del ‘900, si riappropriano della tradizione rivoluzionaria e riaprono la grande contesa, contro l’ordine costituito e le sue istituzioni. L’esplosione investe le scuole e le fabbriche in un contagio inarrestabile. Chi leggesse oggi anche soltanto il calendario delle lotte operaie e studentesche di un mese qualsiasi dell’autunno caldo ne sarebbe sbalordito.
Una reazione a catena che inanella scioperi e occupazioni in ogni città del Paese. Le parole d’ordine, le immagini che vengono issate sui cartelli e sui manifesti sono quelle che parlano della fantasia, della rivoluzione e della sua grande barba. Ma l’onda è mondiale. In un mondo nel quale si produce allora la rottura di una generazione. I giovani diventano una forza politico-sociale. Sono loro a costituire i ponti, le liaisons, fra l’università e la fabbrica, tra gli studenti e gli operai; una relazione sormontata, dalle istanze di una rivoluzione culturale permanente. Sono mille le rivolte nelle scuole e nelle fabbriche e mille tra loro diverse le esperienze che fioriscono nel mondo e in Italia, dove il biennio avrà una durata unica, tanto da dar luogo al “caso italiano”. Sono diverse le rivolte di Berkley, di Parigi, di Berlino. Praga richiede un discorso da sola. Sono diverse le vicende studentesche di Milano, Torino, Pisa, Venezia, Roma, Napoli e altre ancora. Sono diverse le storie operaie di Torino, Milano, Venezia, Genova, Roma e del sud del Paese. Ma unico è il movimento che le attraversava tutte. Esso forma le sue nuove istituzioni, l’assemblea, il comitato, il delegato, dà vita a un contropotere. Dove trova un qualche riscontro cambia anche le organizzazioni storiche del movimento operaio. In Italia nasce il sindacato dei consigli e dei delegati. Il conflitto si struttura e conquista la lunga durata. La critica all’autoritarismo si congiunge alla critica di massa all’organizzazione capitalistica del lavoro. La richiesta di una diversa qualità del lavoro e dello studio, montata nella contestazione dell’esistente, si miscela in un processo di desacralizzazione dell’autorità. Crolla il piedistallo su cui si ergevano il barone universitario e il capo reparto. Un potere arbitrario messo a presidio di una presunta scientificità che pretendeva che quel sapere fosse indiscutibile e a presidio di un sistema di fabbrica nel quale la presunta scientificità dell ’organizzazione del lavoro pretendeva di rendere indiscutibile un regime di sfruttamento e di alienazione dei lavoratori. L’egualitarismo e la rivendicazione di autogoverno, diventata un patrimonio di massa e il lievito di una lotta radicale, hanno aperto una crisi profonda nell’intero edificio, una crisi per la quale è passata una straordinaria capacità di conquista che in Italia ha cambiato il Paese, con le condizioni di vita delle masse e la sua cultura.
Il biennio ‘68-’69 guadagna alla cultura del cambiamento, per il periodo della sua affermazione, della sua ascesa,
l’egemonia. Un grande studioso della civiltà e dei cambiamenti a lungo termine, Fernand Braudel, nel suo lavoro,
Espansione europea e capitalismo, ha scritto: «Il ‘68 ha scosso l’edificio sociale, infrangendo abitudini, vincoli e anche forme di rassegnazione, il tessuto familiare e sociale ne è stato a sufficienza lacerato da determinare il crearsi di nuovi generi di vita a tutti i livelli della società. In questo senso si è trattato di una vera e propria rivoluzione culturale». Un polo rivendicativo convive nel movimento con un polo rivoluzionario, un movimento cementato dal dilagare di un antiautoritarismo che cova istanze libertarie ed egualitarie. Lo spirito del suo tempo è radicale. Lo riassume lo slogan degli studenti parigini. Cosa vogliamo? «Vogliamo tutto». E tutto sembra possibile. Il movimento ha due diramazioni principali: la coscienza dello sfruttamento del lavoro e l’aspettativa di liberazione della persona, il noi e l’io. La prima genera un conflitto sociale senza eguali. Le rivendicazioni salariali di riduzione dei ritmi e dei carichi di lavoro, di controllo del processo di lavoro e produttivo dilagano in tutte le fabbriche e nelle campagne e alimentano la pratica e la domanda di un potere operaio.
Emerge forte e diffusa la rivendicazione di una diversa vita lavorativa, di una diversa qualità della vita. La contestazione della presunta scientificità dell’organizzazione capitalistica del lavoro sopporta l’affermazione di una più generale e potente critica alla neutralità della scienza e della tecnica. L’intero impianto dei rapporti sociali ne è scosso dalle fondamenta. Il noi diventa movimento. Sull’altro lato si affacciano prepotentemente le aspirazioni individuali, le aspettative di liberazione della persona che si espandono con la contestazione dell’autorità. Con la ribellione alla società dei padri, nella scuola come nella famiglia. Quando il femminismo darà un orizzonte teorico-pratico a una nuova domanda di liberazione, sarà ancora una rivoluzione culturale. Nel grande fiume di una ribellione di massa si mescolano, e si contrastano anche, ma intanto si potenziano le istanze di liberazione, in un movimento che realizza grandi conquiste, che cambia la società. Più in generale, due componenti culturali e politiche sono presenti da sempre nel movimento, a partire dallo stesso biennio ‘68-’69, la componente rivoluzionaria e quella modernizzatrice, la tendenza anticapitalistica e quella contro la società dei padri, la tendenza che vuole trasformare la società capitalistica e la tendenza che vuole abbattere il mondo antico. Nel tempo dell’ascesa le due tendenze si mescolano e fanno più forte il movimento che dura e che, in una sua interpretazione sociale, durerà anni e anni. In Italia non lo blocca né lo stragismo né l’affacciarsi della crisi economica e del suo uso capitalistico. Subito dopo l’immensa manifestazione per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, nell’autunno del ‘69, mai Roma ne aveva visto l’eguale, c’è la strage di piazza Fontana che avvia la strategia della tensione, l’attivazione del doppio stato, un uso sistematico della violenza contro il movimento e la democrazia. Dopo il rinnovo del contratto del gennaio 1970 e, subito dopo, l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, in una sequenza che colpisce al cuore il vecchio sistema di relazioni sociali, c’è l’apertura della crisi economica del 1971. Si comincerà a sperimentare lì l’uso politico da parte del sistema della crisi per ripristinare il regime della compatibilità messo in discussione dal movimento. L’operazione di sistema, che sarà ripetuta e potenziata in ogni successiva crisi economica, questa volta non riesce. Il movimento riprende il suo cammino verso le grandi conquiste sociali che negli anni 70 cambieranno l’Italia come mai era accaduto.
[Prima parte. Continua]
