Il caso Tillis e la Big, Beautiful Bill: così le purghe di Trump minano la democrazia americana

Speaker of the House Mike Johnson, R-La., surrounded by Republican members of Congress, holds up the final vote count while speaking following the passage of President Donald Trump's signature bill of tax breaks and spending cuts, Thursday, July 3, 2025, at the Capitol in Washington. (AP Photo/Julia Demaree Nikhinson)

Che la seconda presidenza di Donald Trump potesse avere degli effetti notevoli su una lunga serie di ambiti lo sapevamo tutti, e questi primi 6 mesi sono stati una lunghissima conferma del caos che governa la Casa Bianca, dove si insegue la notizia facile piuttosto che un qualsiasi tipo di progetto: pensiamo ai dipendenti che si occupavano di sicurezza nucleare licenziati e poi assunti di nuovo; alla infinita retorica sui dazi, fissati per venire congelati poche ore dopo, salvo poi ristabilirli qualora non vengano raggiunti degli accordi “storici” che tendenzialmente di storico hanno ben poco.

Potremmo parlare della giravolta sul pacifismo e sull’isolazionismo che il Presidente aveva promesso nella sua campagna elettorale, dei cambi di idee sulla guerra in Ucraina e di decine di altre questioni. Poco si parla, invece, di un fatto passato in sordina, ma che ci permette di capire parte delle trasformazioni in corso negli Stati Uniti nel corso degli ultimi tempi.

Argomento caldo a Washington in questi giorni è l’approvazione al Senato della Big, Beautiful Bill, la grande legge di bilancio che Donald Trump è riuscito a far approvare alla Camera dei Rappresentanti entro la festa nazionale del quattro di luglio. Prima di mettere la proposta ai voti, si è tenuto il cosiddetto “procedural vote”, necessario per stabilire le regole della discussione e della votazione della legge ma anche indicativo degli schieramenti e delle opinioni rispetto alla legge che va in discussione.

Due sono i senatori repubblicani che si sono opposti al partito nel voto procedurale, Rand Paul della Louisiana e Thom Tillis del North Carolina. Paul si è già opposto all’agenda del Presidente rispetto ai dazi, sostenendo che dovrebbe essere il Parlamento e non il Presidente ad adottarli, come prevede la Costituzione americana per tutte le tasse. Il caso di Thom Tillis, però, è diverso.

Il senatore, infatti, il giorno dopo aver dichiarato il suo voto contrario, ha annunciato che non cercherà una ricandidatura nelle prossime elezioni di medio termine del 2026, molto probabilmente anche perché il Presidente ha cominciato a ventilare su X la possibilità di trovare e finanziare un avversario alle primarie per il 2026.

Tillis, quindi, si è trovato intrappolato tra il dover sostenere una legge che non gli piaceva, che aggiungerà trilioni di dollari al deficit, contemporaneamente tagliando a circa dodici milioni di persone l’accesso al programma Medicaid, o dover affrontare delle primarie da outsider con importanti divari nel finanziamento rispetto ad un eventuale candidato supportato dal Presidente.

Tillis ha sostenuto con forza che la legge farà del male agli americani e anche al partito repubblicano, che si troverà ad affrontare una sfida al Senato, in un seggio che comincia a fare gola ai democratici, che stanno già pensando al candidato più forte da portare, in primis il popolare ex-governatore Roy Cooper.

Ma la vera questione è un’altra: il Presidente ha un’influenza sempre più forte sul Congresso, che sembra sempre di più volersi conformare alla volontà della Casa Bianca, questo perché Donald Trump ha completamente monopolizzato la base del partito repubblicano. La polarizzazione politica sta raggiungendo livelli preoccupanti, soprattutto al Senato dove esiste una lunga tradizione di lavoro bipartisan, dato che per la maggior parte delle leggi è necessaria una super maggioranza di 60 voti su 100.

Storicamente il Congresso in molteplici occasioni a progetti del Presidente, si pensi ad esempio al processo di ristrutturazione della Corte Suprema proposto da Franklin Roosevelt nel 1937, volto a rinnovare la Corte di modo da poterne alterare la composizione in modo favorevole al Presidente, rigettato in modo inequivocabile dal partito democratico. Lo stesso tentativo oggi (supponendo una Corte a maggioranza democratica) sarebbe osteggiato allo stesso modo dai repubblicani?

Il caso di Thom Tillis è un segnale che deve portarci a riflettere sui nuovi rapporti tra i tre poteri negli Stati Uniti, con una domanda di fondo che deve guidarci nelle nostre riflessioni sul futuro: la democrazia americana sarà in grado di ristrutturarsi dopo Donald Trump? I famosi checks and balances torneranno a funzionare o siamo di fronte ad una nuova stagione in cui una deviazione dalla linea del partito di appartenenza viene vista come un tradimento della propria parte politica?