Il Comandante, Parla Veronesi: “Todaro, l’eroe che soccorse anche i nemici”

L’ 80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ha preso il via con la proiezione del film d’apertura, Il Comandante, che ha ricevuto lunghissimi applausi. Il Riformista ha incontrato l’autore della sceneggiatura, Sandro Veronesi che l’ha scritta a quattro mani con Edoardo De Angelis, che ne ha curato anche la regìa.

Il Comandante chi è, nel suo romanzo e poi nel film?
«Un eroe di guerra che prova a vincere non con la morte ma con la vita. Un esempio di umanità profonda che ho studiato come personaggio reale. Mi sembra di averlo quasi visto da vicino: per una combinazione ho conosciuto la figlia che mi ha messo a disposizione gli effetti privati, un baule di lettere e di ricordi nella loro casa di famiglia».

Che immagine ne ha tratto?
«Era un precursore, dotato di grande carisma, di grande intelletto e direi quasi che sembrava essere arrivato agli anni Quaranta dal futuro…»

Un viaggiatore del tempo?
«Sì. Un uomo del futuro. Un militare che oltre alla tecnica aveva familiarità con l’occulto e che dava l’idea di aver trovato un buco nel tempo, perché padroneggiava gli strumenti e i dati con una facilità innata. E moltissime volte sembrò predire il futuro con una certa esattezza, preannunciando eventi, anticipando notizie. Annunciò anche il modo in cui sarebbe morto».

Un militare che sa interpretare il cambiamento, tanto da dare l’ordine di salvare dal mare i marinai contro di cui aveva appena affondato la nave.
«È morto in guerra, con un atto di eroismo duplice. Ha vinto sulla nave nemica e immediatamente dopo ha salvato la vita di chi era a bordo. Ha reso inoffensive le armi ostili e ha permesso di rimettere al mondo 26 persone prima che annegassero. Rimanendo fedele al suo Paese ma soprattutto ai suoi valori, ha creato una bolla di pace dentro alla guerra: una cosa che può fare solo un leader che ha una forza di nervi e una saldezza di principi incrollabili».

La voglio trasporre in altri termini: la capacità di vision, di visione che oggi manca a molti leader.
«Beh sì, possiamo tradurla così. Ma rimarrei sul terreno letterario e cinematografico. Todaro ci fornisce un modello, un esempio. E noi abbiamo bisogno di esempi anche nella vita pubblica. L’eroismo non è obbligatorio, e nemmeno il coraggio lo si può acquistare. Si ha o non lo si ha. I principi invece si possono volere, si possono fare propri».

Il suo Todaro, dicevamo, è un eroe/antieroe che capovolge il paradigma della guerra e salva la vita agli avversari. Ma combatte da ufficiale dell’esercito fascista.
«“Il Comandante” incarna con la divisa che indossa la parte peggiore dell’Italia, all’apice del ventennio fascista. Ma era più monarchico che fascista. E certamente, ha avuto decorazioni anche per avere compiuto delle azioni belliche importanti. Ha avuto la medaglia d’oro quando è morto, ma prima due d’argento e due di bronzo per aver portato a termine azioni che hanno sconfitto il nemico sul campo. Ha ucciso, verosimilmente. Questo non gli ha impedito di rimanere umano, come dimostra la storia che racconto».

È più eroico chi riconosce il valore delle vite degli altri o chi pur di vincere le immola?
«Il film lo dice: è più eroico chi si inchina davanti allo sconfitto. Chi onora la vita di chi ha perso, anche in guerra».

La guerra c’è oggi. Qui in Europa. E al momento si vede più sofferenza che eroismo…
«Chissà quanti ce ne sono, di eroi, in Ucraina. Forse perfino tra i russi. Non lo sappiamo: la guerra è in corso, una guerra terribile. Che continua a bruciare vite e speranze e non consente di guardare alle storie umane. So che ce ne sono. Ce ne sono sempre, e appaiono quando finalmente si posa il fumo dei cannoni. Qualcuno alla fine si occuperà di raccontarle».

Pace e guerra faticano a scorrere parallele sui binari della narrazione. C’è l’una o c’è l’altra. È un equivoco?
«Sì. La scarsa comunicazione che c’è sempre stata tra il mondo civile, al quale appartengo, e il mondo militare, ci ha privato di storie che han – no un grande valore e una grande forza narrativa. Si possono e forse si devono conoscere meglio le dinamiche e le vicende militari senza per questo essere militaristi. Come si può essere patriottici senza essere nazionalisti».

Bisognerebbe guardare senza paraocchi, senza manicheismi.
«Ci sono tanti esempi che ci fanno capire come vadano guardata da vicino, la storia. E dentro alla grande storia, la biografia personale di uomini e donne che hanno vissuto senza barricate. Beppe Fenoglio era monarchico, ma fu un combattente partigiano eroico. Contribuì a dare la caccia ai fascisti rischiando la vita ma appena si poté votare per il referendum, votò Monarchia».

Palatucci era fascista, ma salvò la vita di molti ebrei…
«Esatto, Palatucci è un altro esempio. Gli esseri umani sono esseri umani. Potenzialmente capaci di fare scelte libere come individui ma una volta imbrigliati nella massa, prigionieri delle scelte di altri. Il “mio” Todaro nel film dice: “Laggiù sotto al mare le decisioni sono solo mie” ».

Che morale lascerà il “suo” Todaro?
«La responsabilità è sempre personale. Ragionate con la vostra testa. Fate il vostro dovere fin quando questo non contraddice il principio di umanità, di fratellanza, di uguale diritto al rispetto della vita».

“Com’è profondo il mare”, cantava Lucio Dalla. Luogo dell’anima che porta a galla l’umanità di ciascuno.
«Il mare è un elemento forte, una natura che non fa sconti. I sommergibilisti di oggi, che ci hanno molto aiutato per il film, ci dicono che è normale, normalissimo per chi vive e lavora in acqua, rispettare il codice del mare. Se c’è qualcuno che sta per affogare, si fa il possibile per salvarlo. Chiunque egli sia».

Sembra non valere sempre, per i soccorsi in acque internazionali. Todaro andrebbe a salvarli, i migranti?
«La politica si divide ancora troppo sull’accoglienza e sulla necessità di salvare vite. Per anni c’è stato Mare Nostrum, con i suoi interventi diretti. Da quando quell’esperienza è stata interrotta, sono arrivate le Ong. Che mentre le autorità si rimpallano le responsabilità con i libici e con i maltesi, vanno a salvare vite. In una Ong oggi sarebbe facile incontrare Todaro, sì. Ma lui fa di più: fa di tutto per affondare il nemico. Quando vede che ci sono ventisei uomini in mare subentra una fase diversa: non vede più nemici ma naufraghi. E rispetta il codice del mare. E li va a salvare uno ad uno».

Veniamo a lei e ai suoi personaggi, Veronesi. Quanto c’è del Colibrì nel Comandante? Sono due figure di eroe-antieroe.
«C’è la differenza che esiste tra resilienza e resistenza. Todaro è uno che resiste con un atto di forza fino all’ultimo. Ferrera, nel Colibrì, è uno che non si scoraggia ma cambia in continuazione seguendo le pieghe della vita. Carrera non comanda nessuno, neanche il proprio destino, ma accoglie il cambiamento. Todaro è uno che comanda in prima persona ed è egli stesso il cambiamento. Sono due personaggi affratellati come il bianco e il nero: sono l’uno ciò che manca all’altro».

Nel film, con un cast eccezionale, brilla Pierfrancesco Favino. Che Todaro è Favino?
«È Todaro. Favino si è commosso quando ha conosciuto la figlia di Todaro, una signora di ottant’anni, venuta a vedere l’anteprima: “Io non avevo mai sentito la voce di mio padre, adesso una voce ce l’ha”. Aver restituito l’onore di una figura bella come questa di Todaro al pubblico è un merito che ha la straordinaria interpretazione di Favino, la regia di Edoardo De Angelis e il talento di tutti gli attori e i ragazzi della squadra tecnica che hanno dato il massimo per realizzare questo film. Io l’ho solo scritto, quindi lo posso dire: la sua realizzazione è molto, molto toccante. Anche per me».

Di toccante c’è stato Caos Calmo, il Colibrì, ora Il Comandante. Cosa ci riserva per il futuro?
«Sto scrivendo una cosa nuova ma sono molto, molto all’inizio. E mi riservo anche il diritto di sospendere: presto per dirle a cosa sto lavorando. La parte patetica della mia narrazione, cioè il pathos, io non lo scanso. Non ho mai paura del pathos, cerco semmai di interpretarlo nel modo giusto».

La sofferenza è a modo suo una spinta per vivere.
«Esatto. Posso dirlo per me: invecchiando ho trovato familiarità con il pathos, non mi offendo se mi dicono che certe mie storie sono patetiche».

D’altronde empatia significa condividere il pathos.
«È così. Quando il dolore degli altri diventa tuo, quel dolore cambia per tutti. E la vita è una lunga ricerca di senso al dolore. Condividiamolo e forse gli troveremo un senso nuovo».