Il Digital Service Act favorisce libertà e trasparenza? No, rischia di affondare il pluralismo

Nel Sì&No del Riformista, spazio al dibattito sul Digital Service Act, il regolamento dell’Unione europea per modernizzare e ampliare la Direttiva sul commercio elettronico. Favorisce davvero libertà e trasparenza? La risposta è “sì” secondo Nicola Danti, che sottolinea come l’Europa, stabilendo paletti chiari, ridurrà non solo prodotti poco sicuri e contraffatti ma anche messaggi di odio e profilazione degli utenti. Andrea Venanzoni, al contrario evidenzia il contorno poco chiaro ed il rischio di colpire, oltre alle notizie false, anche le narrazioni divergenti, affondando il pluralismo.

Di seguito il commento di Andrea Venanzoni

L’importanza di un dibattito pubblico libero, informato, plurale è un dato irrinunciabile per qualunque ordinamento che voglia assumersi come davvero evoluto. Proprio per questo, dopo le note vicende di Cambridge Analytica e l’utilizzo di sempre più elaborate fake news, l’Unione Europea ha deciso di correre ai ripari, cesellando un complesso framework per riaffermare la sovranità digitale dell’Unione. Questo dispositivo pluri-strutturato si basa sul GDPR, per quanto concerne la tutela dei dati personali, ormai riconosciuti come diritti fondamentali dell’essere umano e per tali tutelati, sul Digital Single Market, per gli aspetti pro-consumeristici e di tutela della concorrenza, e infine sull’assai dibattuto Digital Services Act (DSA), adottato nel novembre 2022 e con una serie di norme ad efficacia differita tra il 2023 e il febbraio 2024.

L’idea sottesa è quella di evitare che il dibattito pubblico, e di conseguenza la dialettica politica, possano essere oggetto di impropri livelli di intrusione ad opera di potenze straniere o di individui malintenzionati. Proprio per questo il DSA ambisce a prevenire rischi sistemici, intendendosi per tali quei livelli di inquinamento della comunicazione tali da mettere a repentaglio la tenuta dei valori stessi dell’Unione. Altrettanto non casualmente, questo pacchetto specifico di previsioni normative – contenute agli articoli 33 e seguenti del Regolamento – finisce con l’applicarsi alle grandi piattaforme social, ai motori di ricerca, alle piattaforme di streaming e video, le quali per la loro ampiezza possono davvero incidere sul convincimento degli elettori. Nobili i fini, senza dubbio, ma la risultante normativa complessiva è preoccupante per la libertà di informazione e per un dibattito pubblico davvero plurale. D’altronde è assai curioso che un Regolamento che vuole contrastare fake news e disinformazione non definisca la stessa disinformazione.

Il legislatore europeo, a quanto sembra, non ha voluto recepire la definizione contenuta in una Comunicazione della Commissione risalente al 2020, secondo cui per disinformazione deve intendersi “un contenuto falso o fuorviante che viene diffuso con l’intenzione di ingannare o assicurare un guadagno economico o politico e che può causare un danno pubblico”.
Passi per la falsità, che ha una sua piena dignità nelle scienze giuridiche, ma ‘fuorviante’ è aggettivazione opaca, potenzialmente sdrucciolevole. Quindi allo stato attuale siamo in presenza di un Regolamento che non definisce e non perimetra esattamente il proprio oggetto, e dall’altro lato, in termini interpretativi, ci troviamo al cospetto di definizioni evanescenti e a maglie molto, troppo, larghe, la cui applicazione pratica è demandata alle piattaforme stesse.

Il rischio, non solo teorico, è quello di colpire oltre alle autentiche notizie false anche le narrazioni divergenti, per quanto motivate e analitiche, da una vulgata istituzionale. In fondo, come insegnava Marc Bloch ne ‘La guerra e le false notizie’, molto spesso è proprio il potere costituito a servirsi della diffusione di notizie false. Tanto ciò vero che la prima fake news della storia potrebbe essere verosimilmente quella riportataci da Tucidide e riguardante la falsa lettera di Pausania indirizzata a Serse, lettera che valse un processo al reggente di Sparta.

Il Regolamento poi conferisce un potere notevole alla implementazione di forme di controllo ‘indipendente’, leggasi fact-checker, organismi di contrasto alle bufale, ONG, i quali spesso non sono esattamente esenti da forti e marcati bias politici. Ciò che avverrà sarà un aumento dell’attitudine censoria delle grandi piattaforme le quali, per non incorrere in sanzioni, non si porranno questioni davanti un contenuto semplicemente controverso e finiranno per cancellarlo, senza preoccuparsi troppo della sua oggettiva falsità.

Un provvedimento normativo quindi che pur originando da comprensibili premesse rischia di definire una verità unica, di Stato, e di affondare il pluralismo.