Il figlio terrorista, la storia di Marco Donat-Cattin che scosse la Repubblica

Nella notte del 20 giugno 1988 un giovane uomo di 35 anni viene coinvolto di striscio in un tamponamento a catena sull’autostrada Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona Sud. C’è un ferito, sua moglie sta provando a fermare le macchine in arrivo. L’uomo la affianca, segnala con lei l’incidente anche se il buio e la velocità delle auto rendono l’impresa rischiosa. Una Thema arriva sparata, li prende in pieno, uccide entrambi sul colpo. La vittima ha un nome noto: è Marco Donat-Cattin, ex militante di Prima linea, ex detenuto politico, considerato un pentito anche se è vero solo a metà. Il padre, Carlo Donat-Cattin, è uno dei principali leader della Dc, più volte ministro, in quel momento vicesegretario del partito.

Intorno a quella parentela e al sospetto che il potente padre, allertato addirittura dal presidente del consiglio Cossiga, avesse brigato per mettere in salvo il figlio era scoppiato nel 1980 uno dei più clamorosi scandali nella storia della Repubblica. Ricostruisce quella tempesta politica, e soprattutto la parabola tragica di Marco, il libro della storica Monica Galfré, edito da Einaudi, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione: uno dei migliori nella foltissima bibliografia su quell’epoca storica, forse il migliore in assoluto. Per quanto attiene allo scandalo, ricostruito nella prima parte del libro, la vicenda ancora oggi non è accertata nei dettagli. All’origine c’è il brigatista Patrizio Peci, primo tra i grandi pentiti della lotta armata in Italia. Nella sua fluviale deposizione aveva detto di aver saputo da un dirigente di Prima linea, il principale gruppo armato dopo le Br, che tra i dirigenti di quell’organizzazione c’era il figlio di Donat-Cattin. Era il 2 aprile 1980: pochissimi giorni dopo la deposizione di Peci arrivò nelle mani di Cossiga che – secondo la testimonianza del pentito di Pl Roberto Sandalo – si premurò di avvertire l’amico Carlo perché facesse espatriare il figlio terrorista quanto prima.

I verbali degli interrogatori di Peci, depurati però della pagina in cui veniva citato Donat-Cattin, finirono nelle mani del giornalista del Messaggero Fabio Isman, consegnatigli da numero 2 del Sisde Silvano Russomanno: finirono entrambi in galera per violazione del segreto d’ufficio. Ci rimasero per mesi, poi il giornalista fu prosciolto, l’uomo dei servizi condannato. Sandalo, il militante di Pl che aveva parlato a Peci di Marco Donat-Cattin, fu arrestato il 29 aprile. Tra la deposizione di Peci e quell’arresto, Cossiga aveva certamente incontrato il vicesegretario della Dc nel suo studio privato e il potente Carlo aveva immediatamente contattato proprio Sandalo, che sapeva essere amico e compagno di suo figlio, secondo quest’ultimo per rintracciare e avvertire il figlio. “Roby il pazzo”, come lo chiamavano, si pentì subito. Il 3 maggio fece il nome di Marco Donat-Cattin, contro cui quattro giorni dopo fu spiccato un mandato di cattura ma il “comandante Alberto”, come da nome di battaglia, era già oltre confine. Fu arrestato a Parigi mesi dopo, il 20 dicembre. Che fosse stato messo in guardia dal padre o meno, la decisione di espatriare la aveva già presa. Non dipese dall’indiscrezione del presidente del consiglio.

Le deposizioni del pentito di Prima linea non si fermarono lì. Coinvolsero Cossiga, scatenando un uragano politico. Appena due anni prima, con lo stesso Cossiga inflessibile ministro degli Interni, la Dc aveva sacrificato il suo esponente più prestigioso, Aldo Moro, per non trattare con i terroristi. La fermezza era una professione di fede, un dogma, un obbligo morale prima che politico: trasgredire in nome della famiglia o dell’amicizia, degli affetti, sembrava letteralmente inconcepibile.
Sia Donat-Cattin che Cossiga smentirono. Solo 27 anni più tardi il Picconatore avrebbe ammesso e indicato la catena lungo la quale aveva viaggiato l’informazione: dal ministro degli Interni Rognoni al segretario della Dc Piccoli, i quali avevano poi messo al corrente Cossiga, affidando a lui lo sgraditissimo compito di mettere al corrente il più diretto interessato, Donat-Cattin padre.

La faccenda finì di fronte alla Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, il “Tribunale dei ministri”. Seduta fiume: tesa, molto drammatica e tuttavia dall’esito predeterminato. La Commissione avrebbe dovuto decidere non sull’eventuale colpevolezza del premier ma solo sulla necessità o meno di procedere con ulteriori accertamenti. Discusse invece come se dovesse emettere un verdetto e assolse a furor di maggioranza. Il Pci raccolse le firme necessarie per ripetere il “processo” in luglio, di fronte alle Camere in seduta congiunta. Fu un momento tanto solenne quanto disertato: dopo cinque giorni di dibattito ad aula semivuota Cossiga ne uscì incolume. Donat-Cattin invece rassegnò le dimissioni e uscì di scena ma solo per qualche anno: nell’86 era di nuovo ministro.

Monica Galfrè ricostruisce non solo i passaggi di quella crisi ma soprattutto la temperie che rifletteva e veicolava: il dibattito sui media, gli intrecci tra calcolo politico, propaganda e avvio, per la prima volta, di una riflessione della società italiana su se stessa e sulla bufera che stava attraversando ormai da oltre 10 anni. Quella che emerge è la verità di un Paese che perla prima volta faceva i conti con il terrorismo, cioè con l’emergenza che lo ossessionava più di ogni altra, riconoscendone la natura “interna”, inscritta nella propria storia. Sino a quel momento i terroristi erano stati visti come alieni: gelidi, efficienti, feroci, nemici mortali, sempre e comunque “altro da sé”. Complice l’intreccio familiare reso fragoroso dalla notorietà e dal ruolo dei protagonisti, i terroristi, e con loro un’intera travagliata generazione, cominciavano a essere visti per quello che erano: non solo parte del Paese ma parte delle famiglie. In senso proprio qualche volta, ma in senso più lato sempre.

Anche da questo punto di vista il 1980 è un anno di svolta: il percorso successivo non sarebbe stato lineare, la “soluzione politica” invocata dai terroristi sconfitti sarebbe sempre rimasta una chimera. Però, senza dubbio, una volta sconfitto il terrorismo, l’Italia della prima Repubblica dimostrò una disponibilità alla clemenza e una volontà di superare l’emergenza marcata dalla consapevolezza di avere a che fare con i propri figli. Quei “figli”, Marco Donat-Cattin in qualche modo li rappresenta tutti. Ragazzo ribelle, padre a 17 anni, militante di Lotta continua, poi di Senza tregua e di lì in Prima linea, quando viene denunciato il “comandante Alberto” era già uscito da Pl, deluso da una deriva militarista che stava rendendo quell’organizzazione sempre più simile alle Brigate rosse e dunque sempre più lontana dalla “struttura armata di movimento” delle origini, di ispirazione opposta a quella brigatista. Se la “ritirata strategica” in Francia lo avrebbe condotto ad abbandonare la militanza armata o a puntare su un nuovo gruppo terrorista, come sembrava comunque intenzionato a fare, non è dato sapere. Di certo nel suo percorso individuale si rifletteva una crisi che non era interna solo alle organizzazioni armate. In quel 1980, che col senno di poi sappiamo aver segnato il tramonto del terrorismo e che si sarebbe concluso alla Fiat con la sconfitta di una ribellione operaia durata oltre 10 anni, si consumò anche la fine di una sorta di incanto collettivo, generazionale, degenerato in tragedia.

L’obiettivo di rendere la parabola di Marco Donat-Cattin esemplare è esplicitato da Monica Galfré sin dal sottotitolo del libro. Per farlo, l’autrice procede in senso inverso rispetto a quello usuale: spoglia Marco Donat-Cattin di ogni componente stereotipa, dal “terrorista” al “militante rivoluzionario”, cercando invece di rintracciarne l’individualità: una verità personale condivisa, pur se declinata da ciascuno a modo proprio, da molti altri giovani del suo tempo e del suo Paese. Da storica, l’autrice ha scelto di affidarsi essenzialmente alle deposizioni di Marco, considerandole comunque meno falsate, in virtù dell’immediatezza, dei ricordi e delle ricostruzioni a distanza di decenni.

Sono gli aspetti sempre dimenticati e messi da parte quelli che vengono qui indagati e scandagliati: il rapporto con la morte data e rischiata, molto più complesso di quanto le ricostruzioni storiche non siano in qui riuscite a restituire, centralissimo nella parabola di Marco Donat-Cattin, che uccise personalmente il giudice Emilio Alessandrini e dall’incubo di quella morte data con le proprie mani non si liberò mai; le relazioni sentimentali, che c’erano ed erano essenziali anche per i militanti della lotta armata; soprattutto il rapporto tra comunità e individui, quello più articolato, per molti e contrapposti versi essenziale nello spiegare sia la precipitazione negli inferi di una lotta armata vissuta spesso con disagio e lacerazioni interiori, sia la rottura che portò molti alla dissociazione, al pentimento o alla resa. Donat-Cattin appare come un “pentito a metà”, quasi un dissociato ante litteram: quando iniziò a collaborare, non facendo nomi ma ricostruendo l’intera genesi di Prima linea, la sua articolazione e i delitti compiuti, la dissociazione ancora non esisteva. Quando morì sull’autostrada, era uscito di galera da sei mesi, lavorava nel sociale per il recupero dei tossicodipendenti. La sua tragedia personale è una chiave per capire la storia d’Italia in un momento cruciale come non è ancora stato fatto.