Il futuro delle città, sovraccariche e caotiche ma luogo di libertà

Per quale motivo tutti (o quasi tutti) vogliono vivere in città? Perché le città hanno tanto successo? Perché ci piacciono? Le risposte a tali interrogativi sono certamente molte e anche molto diverse fra loro: la ricerca di un lavoro, di un ambiente più vivace e stimolante, di una maggiore concentrazione di servizi, anche culturali. Siamo tuttavia convinti che, al di là di quelle citate e delle moltissime altre che sarebbe possibile citare, il principale motivo per cui le città piacciono così tanto è invece, sostanzialmente uno solo ed è che in città c’è più libertà che altrove: in città ci si sente – e probabilmente si è, nei fatti – più liberi che altrove. Stadt Luft macht frei, l’aria delle città rende liberi, diceva un vecchio adagio tedesco risalente al Medio Evo.

In quei tempi, chi viveva in città era libero dalle restrizioni feudali e, in parte, da quelle religiose. Ma ancora oggi, affrancando le identità dei singoli dalle aspettative familiari e sociali e permettendo a chi vi abita di diventare ciò che vuole, le città consentono qualcosa di molto prossimo all’autodeterminazione del proprio essere. Non è cosa da poco; si tratta anzi di una cosa molto, molto importante. Un esempio? Suketu Mehta, nel suo libro su Mumbai, a proposito quindi di una delle grandi città del mondo contemporaneo, racconta: «È un luogo dove non conta di che casta sei, dove una donna può cenare da sola in un ristorante senza essere molestata e dove ci si può sposare con chi si preferisce. Per i giovani di un villaggio indiano il richiamo di Mumbai non è solo una questione di denaro. È anche una questione di libertà». Le città sono insomma i luoghi dove si determina libertà, e ciò vale persino in quei paesi in cui di libertà ve n’è poca.

Che le città piacciano è testimoniato dalla loro enorme espansione recente. Ma, a proposito di città, va ricordato che i primi due decenni del XXI secolo appaiono segnati da alcuni aspetti particolarmente significativi: la quantità di nuove infrastrutture e nuovi edifici realizzati, che non ha precedenti storici, nemmeno nei periodi di ricostruzione post-bellica; il crescente ricorso a nuove tecnologie, nuove tecniche costruttive, nuovi materiali; la sempre più diffusa consapevolezza in tema di sostenibilità, a fronte di un pianeta i cui equilibri ambientali sono effettivamente sempre più precari; l’ibridazione tipologica e la sempre maggiore complessità dell’edificato; ma anche la pervasiva sensazione di crisi – economica, prima di tutto, ma anche culturale, di valori e, in alcuni paesi come il nostro, demografica – e la speranza di uscirne, se non di esserne già fuori. Le città sono importanti per tutti noi: pur occupando, com’è noto, meno del 4% della superficie della Terra, ospitano oltre il 50% della popolazione mondiale e consumano il 75% dell’energia, rilasciando all’incirca il 70% delle emissioni nocive. Inoltre, secondo il McKinsey Global Institute, le prime 600 città del mondo, con poco più del 20% della popolazione, producono più del 50% del Pil. È chiaro che giocano un ruolo centrale quando si parla del nostro futuro.

Un futuro carico di incertezze, che non deve tuttavia spaventarci. Si pensi, per esempio, al tema dell’inclusione, peraltro strettamente legato a quello della libertà. Pensiamo a quanto accade nelle tre maggiori città americane. A New York si calcola che il 65% dei residenti appartenga a una minoranza etnica: si tratta di una città in cui le minoranze, messe insieme, costituiscono insomma una solidissima maggioranza. Non sarà forse anche questo il motivo per cui tutti quelli che vi abbiano trascorso un sia pur breve periodo di vita si siano subito sentiti a casa? Passiamo, sull’altra costa, a Los Angeles. Giuseppe Sala, nel suo recente libro, riporta che il sindaco Eric Garcetti pare abbia scritto al presidente Trump più o meno così: «vorrei ricordarti, a te che parli di muri ai confini, che più del 50% delle aziende che operano a Los Angeles sono state fondate da quelli che tu chiami immigrati. Sappi che io farò di tutto per difendere un modello di grande città contemporanea che funziona». Ricordiamo infine Chicago, una metropoli che è uscita bene dalla crisi e che è oggi una delle più attraenti degli Stati Uniti. Dal 2019 ha un nuovo sindaco, Lori Lightfoot: donna, afro-americana, lesbica.


Il sovraffollamento delle grandi città, altro fattore che spaventa i più, non è necessariamente una condizione negativa: ci sono città demograficamente sovraccariche che registrano grandi successi: basti a pensare a Tokyo, alla stessa New York o a Hong Kong. Le alte densità consentono anzi una maggiore sostenibilità generale e, come s’è detto, la presenza di servizi di livello più alto. La politica e le pubbliche amministrazioni giocano un ruolo centrale: se fanno male, se fanno poco o anche se semplicemente impediscono di fare possono creare seri problemi alle città. Così come le città non possono certo essere smart se i cittadini che le abitano non adottano comportamenti smart. Ma il futuro delle città è anche carico di problemi difficili da affrontare: ve ne sono molte che, invece di crescere, per ragioni diverse decrescono e sono purtroppo numerose anche in Italia. I centri minori delle nostre aree interne, soprattutto al centro e al sud, decrescono in maniera preoccupante.

Cosa potrà salvare le nostre città dal declino se non dal collasso? Non è facile rispondere in maniera sintetica. Ci proviamo. In primo luogo, la progettualità. La progettualità è strategica per il nostro futuro: è importante progettare e non subire i cambiamenti che comunque il futuro ci riserva. Una sfida impegnativa per una società come la nostra (pensiamo specificamente all’Italia), che tende spesso a rifugiarsi nel passato (un passato, peraltro, più immaginato che effettivamente esistito e tanto meno esperito), se non addirittura a rimuovere il futuro: una società che a molti osservatori sembra persino incapace di immaginare il futuro. Ma una buona progettualità, nel senso più alto ma anche più attuale di vero e proprio disegno del futuro, non basta. Va accompagnata da senso civico, da spirito etico inteso come qualcosa che contiene comunque al suo interno una componente estetica e dal citato concetto di libertà come ricerca di un difficile equilibrio.

Un progetto comune, dunque, per un mondo segnato da sempre maggiore interdipendenza, che accolga l’invito – contenuto in un testo di Hans Georg Gadamer del 1989, Das Erbe Europa (L’eredità dell’Europa) – a lavorare insieme per un futuro comune. Gadamer ci ricorda esplicitamente come sia «cresciuta la nostra responsabilità verso il futuro e verso la vita delle prossime generazioni. Questo significa che dobbiamo cercare un accordo e un equilibrio fra i vari gruppi di interesse, come anche un equilibrio fra i bisogni dell’umanità e la sua dipendenza dall’ambiente naturale. La natura di questi compiti è tale che ne siamo tutti coinvolti, agendo o non agendo, e con tutte le conseguenze che l’azione o la non-azione comporta. Il nostro mondo in pieno mutamento rappresenta dunque una grandiosa sfida […] Ma il nostro compito, e la nostra specifica vocazione umana, sarà pur sempre quella di rafforzare il nostro tessuto comunitario: ricordando oggi, a noi stessi e agli ‘altri’ – a chi pensa diversamente da noi – il dovere inaggirabile di provvedere a un futuro comune».

Un futuro, quello delle nostre città, che non va passivamente atteso o, peggio, subito, ma che invece si prepara e si costruisce, insieme, nel tempo; un futuro che non è altro che il prodotto delle nostre azioni presenti e, soprattutto, della nostra concreta capacità di progettare e di innovare.