Il lavoro dominato da algoritmi, per non finire schiavi dei robot serve un nuovo patto sociale

La parola “rivoluzione” è stata molto presente nel movimento dei lavoratori ed esprimeva una reazione alla dimensione di subordinazione del lavoro al capitale. Oggi le cose sono mutate e attraverso la contrattazione, i contratti di lavoro, il diritto del lavoro e la presenza del sindacato le cose sono cambiate e tutti avvertiamo con fastidio la presenza delle forme di sfruttamento e di autoritarismo che si verificano o che si vorrebbero determinare. Se il termine “rivoluzione” è stato sostituito da quello altrettanto impreciso di “riformismo”, la parola rivoluzione continua a esercitare un suo fascino e rimane molto presente nella pubblicistica e nella retorica pubblica.

Non sembra che si possa fare a meno di questo termine se si è innamorati del nuovo in sé o se si è insoddisfatti dell’esistente, ma anche perché l’avanzata delle scoperte scientifiche e la loro costante declinazione nelle tecnologie ci costringe a rivedere in profondità le convinzioni che abbiamo sul mondo in cui viviamo e su noi stessi. Dovremmo imparare a distinguere con attenzione le rivoluzioni politiche e sociali da quelle tecnologiche e scientifiche.

Avendo chiaro che quest’ultime non sono mai violente, anche se il loro rapporto con la violenza non è nullo. Inoltre, le rivoluzioni scientifiche si muovono su un arco di tempo quasi sempre lungo. Noi stiamo vivendo all’interno di una rivoluzione scientifica e tecnologica che sta modificando non solo il nostro modo di vivere e di relazionarci, ma anche il modo di percepire il nostro “io”: è la nostra soggettività che viene progressivamente mutata.

Dentro l’infosfera
In questa realtà, che l’acuta e problematizzante analisi avanzata dal filosofo Luciano Lucidi coglie appieno, l’uomo non è più un’entità isolata, bensì un’entità informazionale che interagisce con soggetti sia biologici che artefatti e ingegnerizzati in un ambiente denominato, per convenzione, infosfera, mi sono chiesto come possiamo ancora parlare di lavoro e di quale lavoro. La prima osservazione è che è in atto una radicale e profonda metamorfosi del lavoro che i concetti propri del sindacalismo risultano inadeguati a descrivere, interpretare e rappresentarla se non in termini di accompagnamento assistenziale attraverso una serie di servizi sul terreno fiscale, assicurativo, pensionistico e quant’altro, in una sorta di neo-mutualismo.

Si fanno ancora i contratti per fortuna, ma non vedo riemergere la dimensione di soggetto sociale autonomo a forte valenza politica.
Ormai il lavoro – anche se lentamente – viene organizzato dalla realtà digitale e l’uomo viene ridotto a svolgere mansioni e azioni programmate da algoritmi. Sembra che la persona possa solo essere occupata per trasportare, spostare, recuperare l’oggetto. Tuttavia mi astengo dal fatalismo e dal pessimismo come dall’ottimismo beota. Sono convinto che bisognerebbe stabilire, tramite disposizioni contrattuali o legislative, due priorità.

Primo: continuare a rafforzare i diritti attribuiti alla persona, in particolare in termini di libertà e di partecipazione alle decisioni (la proposta avanzata recentemente nell’accordo Fca-Psa dell’ingresso in Cda di componenti in rappresentanza dei lavoratori è sicuramente importante, anche se ritengo vada meglio precisata e rafforzata in termini giuridici in modo che i rappresentanti dei lavoratori valgano come quelli degli azionisti), di potere usufruire di un sistema formativo permanente, in modo che tutti abbiano i mezzi per stare in posizione eretta dentro un mercato del lavoro che tenderà a essere molto flessibile e quindi di sviluppare la propria carriera professionale.

Secondo punto: bisogna cercare di anticipare i cambiamenti che verranno introdotti dal digitale piuttosto che continuare a spiegarli. Il digitale sta rivoluzionando l’occupazione; fa scomparire i commerci, ne crea altri, per il momento insufficientemente interessanti per l’insieme dei lavoratori. Alla persona deve essere riconosciuta la sua parte e il suo ruolo dentro le nuove modalità di lavoro.

Se anche il lavoro è collocato dentro l’infosfera e se da questa collocazione si stanno sviluppando nuove forme di lavoro e nuove dipendenze sollevano domande per quanto riguarda l’occupazione, non va però sottovalutato il nuovo rapporto che si viene a creare tra l’uomo e la macchina.


I recenti sviluppi tecnologici suggeriscono la possibilità di una robotizzazione più massiccia, ma anche più efficiente. Le macchine potrebbero essere in grado di eseguire più delle cosiddette attività di routine. Lo sviluppo di algoritmi decisionali significa in effetti che compiti complessi possono essere potenzialmente automatizzati e questo esige che il sindacato metta in moto un’azione unitaria di alto livello rivendicando un sistema di formazione delle persone meno qualificate, nel quadro di una “distruzione creativa” (in cui i lavori distrutti sono compensati dalla formazione come opportunità per un nuovo lavoro).

Per ottimismo costruttivo
Le organizzazioni sindacali, forti della loro storia rappresentativa e costruttiva, devono essere portatrici di un nuovo ottimismo sociale che vinca la sfiducia, il rancore, la recriminazione, l’invidia e l’individualismo che stanno restringendo gli spazi di uno sviluppo sostenibile che oltre dell’ambiente abbia cura della dignità di ogni essere umano. Mentre diventa sempre più importante comprendere che è importante far crescere le capacità analitiche delle persone al lavoro per elaborare una strategia efficace finalizzata a una nuova e partecipativa organizzazione del lavoro, serve nello stesso tempo grande attenzione al deficit normativo che si accompagna ai nuovi lavori che potrebbe portare a un indebolimento delle protezioni sociali.

Una simile configurazione equivarrebbe a rallentare lo sviluppo di queste nuove attività. Ma al contrario, fornire a queste realtà le garanzie sociali necessarie e sufficienti sembra essere il modo più sicuro per renderle una fonte di prosperità e realizzazione per tutti.
Rifuggendo dalle visioni apocalittiche, sono convinto che il robot possa essere un alleato dell’uomo e in particolare del lavoratore. Occorre spingere per far sì che il settore delle costruzioni e altri settori che presentano affinità investano di più sugli esoscheletri intelligenti in modo che possano svolgere i lavori più ripetitivi, pericolosi e monotoni, lasciando agli esseri umani i compiti che richiedono maggiore abilità e garantiscono meno rischi per la salute.

È un esempio di lavoro che si arricchisce tecnologicamente, invece di scomparire. Tuttavia, da un punto di vista etico, si deve mantenere aperta la riflessione su quali possano essere i rischi legati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. In definitiva, la cooperazione positiva tra uomo e robot non dovrebbe lasciare il posto a una gerarchia invertita in cui l’uomo … servirebbe la macchina!

Per questi motivi, e poiché ci troviamo in una situazione che pone grandi sfide non solo sul piano economico ma anche su quello antropologico, si richiedono atti coraggiosi e forse anche una nuova predisposizione al rischio, Sarebbe necessario un patto sociale sul digitale.