Fra le varie polemiche che hanno già costellato la Mostra del Cinema di Venezia ce n’è una di cui a occhio non si è accorto nessuno, ma riguarda l’anteprima della settimana scorsa del film “Il Mago del Cremlino”. Sgombriamo il campo dall’equivoco più ovvio: il romanzo di Giuliano da Empoli da cui il film è tratto è un piccolo capolavoro. Geniale l’intuizione, quella di narrare l’ascesa al potere di Putin attraverso gli occhi del suo consigliere.
La storia è quasi maniacale nello scolpire la psicologia dei personaggi, certosino nel ricreare luoghi e tempi, la selvaggia Russia dei primi anni novanta, che la maggior parte di noi europei possiamo solo vagamente immaginare.
Non ho ancora visto il film mostrato in anteprima a Venezia con Jude Law nei panni del giovane Putin, ma ho letto già un paio di stroncature dei critici. Forse quindi è un’occasione persa, a maggior ragione che per la sceneggiatura del film era stata reclutata un’altra penna celebrata, quell’Emmanuel Carrère il cui “Limonov” è un altro bellissimo romanzo biografico che scava nel cuore di tenebra della Russia post-comunista.
Quindi mi attengo al libro per sollevare un altro punto. Il Mago è un romanzo speciale che probabilmente non avrebbe venduto centinaia di migliaia di copie e non sarebbe diventato un film se non fosse uscito un mese dopo lo scoppio della guerra in Ucraina nel 2022. E questo andare al traino, anche se involontariamente, di una tragedia così immane secondo me è un problema.
Ho scritto in passato su queste pagine della vicinanza culturale italiana verso la Russia, le sue origini e le sue radici storiche. È qualcosa che con le dovute differenze si potrebbe dire anche della Francia—dove il romanzo di Da Empoli venne originariamente pubblicato e divenne un best seller— o della Germania dei “Russlandversteher,” coloro i quali nell’intellighenzia teutonica “comprendono la Russia”.
Qui però andiamo oltre. Siamo evidentemente accattivati dall’ascesa di Vladimir Putin e del suo spin doctor, ma anche dalla radiografia di un regime e di un potere cinico e “verticale”, seguendo la definizione di Vladimir Surkov, il vero mago del Cremlino nei primi anni della presidenza di Putin e a cui libro e film sono ispirati.
Senza scomodare Hannah Arendt o Nietzsche sulla banalità o meno del bene e del male, è evidente che questa fascinazione a tratti morbosa per Putin vada oltre la Russia. È la stessa macabra adulazione di cui hanno beneficiato la gran parte dei dittatori del secolo scorso, da Mussolini a Idi Amin. Ha la stessa matrice luciferina di cui cantavano i Rolling Stones nella canzone Sympathy for the Devil.
Non so se Putin provochi simpatia, ma basta scorrere le storie rocambolesche che circolano da anni sul suo conto per capire che la sua fama abbia un qualcosa di ossessivo: dal suo passato da spia, al dubbio se usi o meno controfigure, dall’ipocondria del lunghissimo tavolo con il quale incontrava gli ospiti durante la pandemia, al suo stato di salute e presunte e mai confermate malattie.
Da questo punto di vista, il Mago contribuisce a coltivare il mito. Lo fa in quella terra di nessuno, fangosa ed insidiosa, fra fantasia e realtà, fra adulazione e disdegno, fra bene e male. Putin lo sa benissimo ed è abilissimo nell’usarla a suo vantaggio.
Sa benissimo che, al netto delle critiche all’ignominia della sua guerra, ha moltissimi adulatori in ogni angolo del globo, Italia compresa. Sa benissimo che, a prescindere da oscure trame più o meno complottiste, Donald Trump sia completamente ammaliato da lui. Lo si è visto in modo plastico nella surreale conferenza stampa in Alaska dopo lo sciagurato summit con il tycoon americano.
Putin prende la parola, parte con un’erudita storia dell’amicizia fra Russia ed America in Alaska, assesta qualche colpo obliquo a Biden e agli europei, non concede niente di niente sull’Ucraina e poi chiosa, in lingua inglese, “ci vediamo a Mosca la prossima volta”. Non so se luciferino, ma diabolico sicuramente sì.
