Raccontava ancora di quanto il cinema italiano avesse sfruttato il loro successo ai botteghini, salvo poi, da un certo punto della storia nazionale non solo cinematografica, quasi abbandonarli, come scarti comici, strada facendo. L’ho detto che era malinconico? L’ho detto che mi mostrava le analisi cliniche appena ritirate aggiungendo che il medico lo aveva comunque rassicurato riguardo allo stato del suo fegato? Lo stesso fegato che infine lo ha tradito. Poi, se non l’ho ancora detto, va aggiunto che era uno straordinario pittore, con i pastelli a olio realizzava disegni mirabili, degni del più struggente realismo magico, gli servivano, quasi come ex-voto, a raccontare se stesso e la sua storia sul palcoscenico, la sua avventura di comico miracolato dal talento, in uno di questi Franco appare in primo piano, dietro c’è Ciccio che lo cinge con lunghe braccia e mani sottili da lucertola, in quel pastello che mostra l’entusiasmo degli esordi in strada, a Palermo, tra palchetti poveri e il marciapiede antistante il cinema “Finocchiaro”, Franco e Ciccio sembrano dirsi: dai, ce la faremo, riusciremo anche questa volta, a sopravvivere alla fame. Non ho detto però con esattezza che sia Franco sia Ciccio venivano da una Palermo profonda, e la fame raccontavano di aver la partita, facendo ogni genere di mestieri, anche il “panellaro”, e mentre diceva così, proprio lui, Franco, riproduceva il gesto di tirare fuori proprio le panelle dall’olio bollente… Straordinario era anche nel modo di approcciarsi alla clientela notturna, da una certa ora infatti il bar Cantù vedeva passare ogni genere di bestiario umano, con lui bravissimo a rintuzzare anche gli avventori di una Roma a perdita d’occhio. Poi, Ciccio, compagno di strada ma anche, per ragioni caratteriali, la sua croce. Se Franco Franchi infatti era il palermitano forte di una generosità comica che si riverberava anche negli autografi dove appariva la sua caricatura, l’altro, Ciccio Ingrassia, riassumeva il siciliano “inglese”, a suo modo ombroso, un rapporto, al di là della separazione che avrà infine luogo, riassumibile nella volta in cui Franco telefona all’amico, al sodale, al fratello di scena per dirgli esattamente così: «Ciccio, ci vuole Raffaella Carrà a Domenica in, che dici andiamo?». E Ingrassia, di risposta: «No, domenica non posso, semmai lunedì». Mentre raccontava questo dettaglio Franco, alla fine, vinto, arreso, aggiungeva scuotendo la testa: «… che vuoi che dirgli a uno che ti risponde in questo modo? Eppure aveva un ottimo mestiere prima di mettersi a fare l’attore, era bravissimo a tagliare le suole delle scarpe…». Anni fa, Franco Maresco e Daniele Cipri vollero fare loro un omaggio, un film-tributo intitolato Come inguaiammo il cinema italiano, per riassumere l'epica del tempo in cui la coppia riempiva le sale di quartiere, così come avveniva al “mio” cinema “Eden”, a Palermo, nei giorni dell’infanzia; mi sembra di rivederli in I due figli di Ringo o piuttosto nella parodia della serie di 007, con Franco che emerge dalla riva, una gallina sulla testa, mimetizzato come accade altrove a Sean Connery, l’originale. Che sensazione infine d’irriproducibilità di un tempo, dell’Italia al mattino, quando bastava sentir dire “soprassediamo” per esplodere in una risata, era un attimo appena e immediatamente Franco saltava in braccio all’amico, raccontava, proprio Franco, che nei tribunali, i cancellieri, dovettero cassare quest’espressione procedurale perché ogni qualvolta veniva pronunciato un “soprassediamo” perfino il reo, il povero imputato dai ceppi ai polsi, non riusciva a smettere di ridere.
Il mio amico Franco Franchi e quelle ingiuste accuse di mafia
