Il momento caldo del fronte libico che preoccupa Giorgia Meloni

Chi è la più volenterosa tra le nazioni che “contano”? L’Unione europea a trazione franco-inglese, che si appresta a riunire quest’oggi i capi di Stato e di governo per gestire la difesa dell’Ucraina, e valutare un impegno diretto boots on the ground? Oppure la Cina di Xi Jinping che ieri, davanti a Vladimir Putin e Kim Jong Un, ha sfoggiato il proprio (enorme) arsenale di armi, tra cui missili nucleari a raggio intercontinentale, in occasione dell’ottantesimo anniversario dalla fine della Seconda guerra mondiale? O ancora l’Italia del governo Meloni che – in gran segreto – lo scorso 2 settembre ha organizzato a Roma un faccia a faccia sul futuro della Libia, alla presenza del vice comandante dell’Esercito nazionale Saddam Haftar (figlio del generale Khalifa che governa la Cirenaica) e di Ibrahim Dbeibah (nipote e consigliere del premier del Governo di unità nazionale di Tripoli, Abdulhamid Dbeibah)?

Il momento caldo del fronte libico

Di certo, a Giorgia Meloni e al suo ministro degli Esteri, Antonio Tajani, non manca la volontà di appianare i pur profondi dissidi tra Bengasi e Tripoli. Il perché è presto detto: il fronte libico vive un momento molto caldo, segnato dal rischio di nuove e imminenti azioni armate in Tripolitania e nella stessa capitale. Perciò Roma intende battere un colpo diplomatico in autonomia, per evitare ulteriori e ancor più deleterie conseguenze nel Mediterraneo, che si tradurrebbero certamente in nuove ondate di sbarchi clandestini verso le coste italiane, così come nella probabilità di dover assistere a un nuovo conflitto a media/alta intensità, e con la non remota possibilità di truppe straniere sul territorio libico. Un simile scenario, inoltre, vedrebbe sfumare, o quantomeno allontanarsi, l’avvio dell’ambizioso Piano Mattei su cui il governo di Roma punta per normalizzare i rapporti con il Nordafrica: in campo energetico anzitutto, ma anche per quanto concerne agricoltura, istruzione, salute e approvvigionamento idrico per le popolazioni africane.

Schermaglie

Anche se la Libia – per il momento, e per ovvie ragioni – non è ancora parte in causa del Piano Mattei, eventuali nuove schermaglie in quello che è il Paese-chiave del Mediterraneo per le politiche energetiche e securitarie italiane, causerebbero un cedimento strutturale dell’intera strategia meloniana, con la conseguente liquefazione di quell’”Africa Policy” così com’era stata pensata nel gennaio 2024 quando, nel corso del Vertice Italia-Africa di Roma, venne lanciato il Piano.

L’imbarazzo Al Masri

Pertanto Roma, ospitando un summit di “ricambio generazionale” sulla Libia proprio mentre a Parigi si riunisce la “coalizione dei Volenterosi”, prova a giocare d’anticipo sul campo geopolitico, dopo l’imbarazzo internazionale creato al governo Meloni dal caso Al Masri, il criminale di guerra libico e deus ex machina degli sbarchi clandestini, rimpatriato su un volo di Stato italiano con un pasticcio non degno dell’intelligence italiana. Anche perché la conseguenza di quell’atto è stata delle peggiori. Non solo sono finiti accusati dal tribunale dei Ministri il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il ministro della Giustizia Carlo Nordio (archiviata invece la posizione della premier Meloni), ma l’opposizione adesso ha uno strumento di pressione in più per mettere in difficoltà il governo su questo e altri dossier esteri. Un episodio che si potrà superare (cancellare?) soltanto ricomponendo il puzzle libico, dove tuttavia la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin s’intromettono a giorni alterni, tenendo fede al principio del divide et impera che, dalla guerra civile del 2011 a oggi, impedisce ogni tentativo di riunificazione della nostra ex colonia.

Volenterosi

Quanto a Mosca, a Pechino e ai “Volenterosi” europei che si dannano per mitigare il disastro ucraino, è passata troppo in sordina una dichiarazione invece importantissima di Vladimir Putin in persona sul futuro di Kyiv, spuntata non a caso proprio durante il viaggio che la delegazione russa ha compiuto alla corte di Xi Jinping: «Non siamo mai stati contrari all’adesione dell’Ucraina alla Ue» ha detto il presidente della Federazione russa. Un messaggio che sembra provenire direttamente dal leader cinese, e che apre al solo accordo di pace che, tanto Pechino quanto Washington, ritengono possibile: affidare in toto a Bruxelles il futuro di Kyiv, la sua difesa, la sua ricostruzione, la sua politica. Mosca si “accontenterebbe” invece di ottenere formalmente la Crimea e parte del Donbass, così da poter affermare che hanno vinto tutti. Tutti tranne gli ucraini, ovviamente.