Caro Claudio,
il momento in cui il PCI dava il meglio di sé erano le campagne elettorali. Una prova di forza e di efficienza che tutti invidiavano. Ne ho fatte da candidato un bel numero: dal consiglio di zona di Roma, al Consiglio comunale di Milano, poi tre europee e tre per la Camera. Più tutte quelle da militante. Qualche volta per essere eletto e qualche altra semplicemente per dare una mano. Sì, perché tutto era chiaro dall’inizio, c’era chi doveva essere eletto e chi stava in lista solo per catturare un po’ di voti grazie al suo profilo. Il Partito decideva come distribuire le preferenze, si votava con il sistema proporzionale, e le sezioni rispettavano in modo disciplinato le decisioni. La propaganda personale era vietata così come era vietata ogni spesa personale per auto promozione. Le spese le pagava tutte il Partito, e quando eri eletto versavi una quota della tua retribuzione. Niente a che fare con la realtà degli altri partiti dove i candidati dovevano affrontare una doppia competizione: per portare voti al proprio partito contro gli altri partiti, e per prendere preferenze per sé stessi contro gli altri candidati nella stessa lista elettorale. Un inferno, con in più l’obbligo di trovarsi i finanziamenti. Durante la campagna elettorale dovevi essere a disposizione per iniziative varie 24/7.
Dal centro ti veniva consegnato giorno per giorno il tuo calendario: assemblee, dibattiti, comizi, incontri con categorie varie e per i più “fortunati”, quelli che dovevano essere eletti, anche presenze radio o tv. Erano prove massacranti, con centinaia di chilometri da percorrere e decine di impegni nel giro di qualche settimana. Fra tutte mi è rimasto impresso il ricordo di una campagna per le elezioni europee, doveva essere quella del 1984, quelle in cui Berlinguer morì a Padova, proprio durante un comizio. Ero candidato in due circoscrizioni: Nord Est e Nord Ovest, 8 regioni in tutto. Non sarei stato eletto – non era previsto – ma dovevo comunque darmi da fare, come da tradizione. Una settimana la passai a Torino, dove segretario della Federazione era Piero Fassino: un uomo che anche allora incarnava un perfetto mix fra rigore sabaudo e disciplina di Partito. Con me candidati c’erano Giancarlo Pajetta, un peso massimo del Partito, e qualcun altro che non ricordo. Dormivamo tutti nello stesso albergo. La sera si andava inevitabilmente a dormire tardi, ma alle 9 del mattino inesorabilmente qualcuno bussava alla tua camera, depositava la “mazzetta” dei giornali davanti alla porta, e alle 13 in punto si andava a pranzo tutti insieme con Fassino che “faceva il punto”, ci domandava dove ero stato il giorno prima e quanta gente c’era all’iniziativa. Io in genere mi allargavo e aumentavo un poco la cifra dei presenti. Piero consultava un suo misterioso taccuino e emetteva il verdetto: “Benissimo, l’ultima volta c’erano 20 persone in meno!”.
E così, in fondo dandoci un po’ di coraggio l’un l’altro, iniziava il tour della giornata. Certo, col senno di poi posso dire che il contributo dato dai singoli candidati alla campagna era assai povero. Alla fine dovunque incontravi gente che aveva già deciso il suo voto e, con l’eccezione dei grandi leader conosciuti, il richiamo verso gli elettori di noi portatori d’acqua era ben poco. D’altronde ormai la partita cominciava a giocarsi non più nelle piazze, ma sulle televisioni nazionali, nelle conferenze stampa e nei dibattiti dei leader. E non c’erano ancora i social, e anche tv e radio erano in numero limitato rispetto ad oggi. Ma la campagna elettorale aveva quasi fondamentalmente lo scopo di fare girare al meglio la macchina del partito, fare sentire tutti utili e dare l’impressione di forza e serietà. Cose in cui il partitone funzionava alla grande.
Caro Chicco,
per ragioni che abbiamo più volte ricordato, io praticamente non ho mai fatto campagne elettorali da candidato: ero un grigio funzionario di partito e, con metodologie diverse da quelle del sabaudo Fassino, mi occupavo solo di fare in modo che le campagne degli altri andassero bene. Anche perché certo non potevo permettermi di convocare il compagno Napolitano per chiedergli com’era andato il comizio della sera prima a Caivano. A me toccava solo accompagnarlo in giro con la mia scalcagnata Fiat 850, dovendo in contemporanea rispondere alle sue incalzanti domande sulla situazione economico-sociale del comune che stavamo raggiungendo, sussurrargli qualche gossip del momento su amori clandestini nel partito, e soprattutto spremere il motore della mia carcassa, perché il traffico dell’hinterland napoletano era caotico, e Giorgio pretendeva (giustamente) di arrivare puntuale agli appuntamenti.
Cominciai a divertirmi di più quando feci un passo avanti e, da funzionario di zona che ero, diventai responsabile della stampa e propaganda (della comunicazione, si direbbe oggi) della Federazione: era quello che più mi piaceva fare, da sempre. Inventare slogan, far diventare leggibili improbabili mattoncioni programmatici o – peggio ancora – astratti sermoni ideologici: in quello mi sentivo bravo e motivato. Ma per la passione che mettevo in questa attività, e per i tentativi di innovare il linguaggio del partito, dovevo sorbirmi spesso cazziatoni importanti. Il caso più eclatante riguarda la campagna elettorale del 1983 per il rinnovo del Consiglio Comunale di Napoli. In una città che era sempre stata di destra, il boom delle elezioni del 1975 aveva consegnato al PCI il governo della città, e quel galantuomo di Maurizio Valenzi faceva il possibile per tenere a galla maggioranze improbabili e raffazzonate.
Otto anni dopo era abbastanza chiaro che il ciclo stava finendo: il terremoto del 1980 aveva messo in ginocchio la città, la ricostruzione non procedeva, sul piano politico il PSI stava costruendo anche sul piano locale un asse strategico con la DC. Così si arrivò allo scioglimento del Comune, e alle elezioni anticipate nel mese di novembre. L’appuntamento fu considerato anche dal centro del Partito di grande rilievo: se avessimo tenuto l’amministrazione, sarebbe stato un significativo segnale di resistenza, dopo il brutto risultato delle politiche di giugno. Così da Roma arrivarono parecchi denari per finanziare la campagna, e io mi rivolsi ad un’agenzia di Modena per fare – forse, anzi sicuramente, per la prima volta a Napoli – un lavoro professionale di livello. Producemmo dei video ben girati e ironici, manifesti con una linea grafica moderna e aggressiva (uno in particolare andò a ruba, con Totò cui facevamo esclamare “ma mi faccia il piacere!” alla sola vista di Almirante). E poi decidemmo di giocarci tutto con Berlinguer al comizio di chiusura, per il quale volevamo riempire all’inverosimile piazza Plebiscito. Doveva essere una grande prova di forza: nessuno poteva pensare di batterci.
Ora – sembrerà una barzelletta quella che sto per raccontare – il problema principale che ci ponemmo era come dare il massimo di risalto al nome, anzi al cognome del segretario, sui manifesti da affiggere, in modo che, passando per strada in auto o su un autobus, chiunque potesse sapere che stava per sbarcare in città. Il punto è che a Napoli gli spazi per le affissioni erano quasi tutti buoni solo per i 70X100, non per i 100×140, per cui il “Berlinguer” non avrebbe avuto il necessario risalto. Provammo in mille modi, anche mettendolo in diagonale, ma il risultato non cambiava. Fino a che, con la bravissima Valentina Lepore (che poi se ne sarebbe andata a fare la grafica a Parigi), non escogitammo una soluzione geniale: scomporre in tre parti il cognome (BER-LIN-GUER, anzi BER-LING-UER, funzionava meglio) e occupare così l’intero spazio del manifesto, peraltro con ogni lettera di colore diverso. Ne venne fuori un capolavoro di cui andavamo fierissimi. Ma non avevamo fatto i conti con la Chiesa comunista. Non appena i manifesti uscirono per strada, fioccarono le proteste dei fedeli: mi ero permesso di desacralizzare il nome del segretario, trasformandolo in una specie di icona pop, e questo non era tollerabile. Così fu convocato d’urgenza il Comitato direttivo della Federazione, e io fui messo sotto processo. Mi difesi dicendo che era – tecnicamente – l’unico modo per far sapere a tutta la città dell’evento, ma non c’era niente da fare: i vecchi compagni proprio non capivano, a qualcuno più giovane faceva piacere rompermi un po’ i coglioni. Fu l’anziano sindaco a salvarmi, con un veemente e modernissimo intervento, elogiando il manifesto (lui era anche un bravo pittore) e sostenendo che bisognava capire che la comunicazione del partito doveva cambiare, se volevamo vincere. Così io fui salvo, e tutti insieme ci avviammo a perdere gioiosamente le elezioni. Da allora, ogni volta che qualcuno mi parla dell’importanza della comunicazione in politica, mi viene in mente quella campagna.
