Il paradosso del turismo: così consuma le nostre città. Le contromisure della “comunità che accoglie”

C’è un momento, d’estate, in cui la città smette di essere luogo e diventa scena. Le strade si muovono come nastri trasportatori, i negozi parlano solo una lingua globale, i residenti imparano a mettersi da parte. Non è un capriccio stagionale: è la forma economica del nostro tempo libero. La chiamiamo overtourism, ma il nome non basta. Il problema non è i “troppi turisti”, bensì città trasformate in prodotti, spazi pubblici ridotti a beni posizionali: più li consumi, meno ne resta per chi ci vive. La notizia di questi giorni lo dice con chiarezza: da gennaio 2026 i Musei Vaticani apriranno un intervento di manutenzione straordinaria sul Giudizio Universale di Michelangelo per verificare e mitigare gli effetti del carico di visitatori — fi no a 20mila presenze al giorno nei picchi — sugli affreschi della Cappella Sistina. Non è allarmismo ma prudenza, ed è soprattutto un messaggio politico: la bellezza ha bisogno di tempo, cura e limiti; se investiamo sull’accoglienza, dobbiamo investire di più sulla conservazione che essa rende necessaria. L’overtourism non è un giudizio sui turisti; è un paradosso economico.

Il paradosso

Con le piattaforme digitali, cercare, prenotare, monetizzare un appartamento è facile come inviare un messaggio. L’offerta ricettiva ‘distribuita’ ha portato reddito in quartieri prima marginali, ma ha anche innescato rendite: conversione di abitazioni in alloggi brevi, aumento dei canoni, esternalità sui servizi (rifiuti, trasporti, sicurezza) non pagate a sufficienza da chi intermedia. È il paradosso della falsa abbondanza: sembra che lo spazio urbano sia infinito, ma è finito; sembra che il tempo dei residenti sia elastico, ma non lo è. La filosofi a aiuta a nominare ciò che accade. Simmel ricordava che lo straniero è ‘vicino e lontano al tempo stesso’: porta novità, ma può dissolvere l’identità dei luoghi quando diventa massa indistinta. Il nocciolo della questione è che diritto all’altrove (viaggiare) e diritto all’abitare (restare) devono essere coordinati. Non mancano tentativi di risposta. Città europee hanno introdotto contributi d’accesso per i visitatori giornalieri, limiti alle notti per gli affitti brevi, zone rosse con densità massima turistico-ricettiva. Sono segnali utili, ma spesso difensivi: curano la soglia, non la struttura. Se vogliamo evitare la guerra di religione tra residenti e viaggiatori, serve un patto più alto. Regole chiare, monitoraggio, responsabilità condivisa, benefici tangibili per la comunità che accoglie.

La strada per reagire

Ecco una via praticabile, che unisce etica e conti. Innanzitutto occorre misurare la capacità di carico civica. Non solo corpi per metro quadro, ma indice di vivibilità: rapporto tra posti letto turistici e residenti per isolato; rumore notturno; pressione su rifiuti e trasporto; costo di opportunità per servizi essenziali. La città non è un albergo: ha cicli (scuola, lavoro, cura) che vanno resi compatibili con i picchi dell’ospitalità. Importanti sono anche le licenze dinamiche e un “cap-and-trade” delle notti. Fissare un tetto di notti turistiche per quartiere e scambiarle in un mercato regolato: chi vuole offrire di più compra quote, chi offre di meno le vende. È un modo per internalizzare il costo dell’uso scarso dello spazio e premiare chi riduce la pressione. Il tetto non deve essere eterno: si ricalibra sulle misure di vivibilità (se l’indice peggiora, il tetto scende). Poi, per i locali, un dividendo civico obbligatorio. Una quota non negoziabile dei ricavi (tassa di soggiorno, canoni, quote di piattaforma) alimenta un fondo di prossimità controllato dai residenti del quartiere: manutenzione di strade e verde, biblioteche aperte la sera, bagni pubblici, musei gratuiti per chi abita. A questo si aggiungono una raccolta rifiuti aggiuntiva, bus notturni, pattugliamenti festivi: se il flusso cresce, aumenta anche il contributo richiesto agli operatori e alle piattaforme. Infine, nei periodi di overtourism critico (ponti, grandi eventi), occorre attivare moratorie temporanee su nuove licenze in microaree che superano soglie di vivibilità, con valutazione ex post.

Non si tratta di protezionismo urbano

Chi teme che tutto questo uccida l’ospitalità confonde limite e chiusura. Non si tratta di protezionismo urbano, ma libertà di muoversi e di restare, senza che l’una divori l’altra. C’è anche un punto poco discusso: il turismo non acquista solo camere, compra reputazione. Se la reputazione di un luogo è “bella ma invivibile”, il valore crolla per tutti. Governare l’ospitalità è una politica industriale della città: stabilità delle regole, qualità dell’esperienza, valore aggiunto locale (artigianato, filiere corte, cultura non usa-e-getta). È anche una politica del lavoro: contratti veri per chi serve, cura del capitale umano che rende ottima un’accoglienza. L’indotto non può essere invisibile. Il viaggio è un diritto relazionale. Serve un protocollo di convivenza: dati aperti sul flusso, verifiche antiabusivismo, pagamenti di imposte dove il valore si crea, risposta rapida a segnalazioni dei quartieri. Trasparenza non come favore, ma come licenza sociale. In fondo, la domanda è semplice e radicale: che cos’è una città? Un parco a tema stagionale o un’opera corale che continua ogni giorno? Se scegliamo la seconda, il turismo non è un invasore, ma un ospite che rispetta la casa.