Il pater familias Trump chiede il riarmo, l’Italia obbedisce e aggiunge un nuovo debito per 10 anni

President Donald Trump speaks during a meeting with NATO Secretary General Mark Rutte at the NATO summit in The Hague, Netherlands, Wednesday, June 25, 2025. (AP Photo/Alex Brandon) Associated Press/LaPresse

Dalla “papi girl” al “daddy boy” il passo – nel vocabolario – è breve. Tra Silvio Berlusconi e Donald Trump forse qualche tratto di somiglianza c’è; tra Noemi Letizia e Mark Rutte molto meno. Il contesto del primo appellativo al nostro “Cavaliere” era una festa di compleanno, a Casoria, dove la signorina Noemi, la festeggiata, si rivolgeva a Berlusconi con un’affettuosa intimità che fece scandalo. Il contesto del secondo vezzeggiativo è più serio; al margine della Conferenza dell’Aja, il nuovo segretario della Nato, mentre si parla di guerre e di riarmo, non trova di meglio che attribuire al presidente Usa il ruolo di “buon padre di famiglia” (noi latini avremmo detto pater familias, non “daddy”) per tirare le orecchie a un paio di figlioli che litigano con bombe e cannoni. La tragedia scivola nella commedia. Quasi nella farsa.

Ma, forse giustamente la stampa internazionale, a differenza di quella nazionale di allora, non crea un “caso”. Anche perché lo scenario sullo sfondo dell’improvvido Rutte è quasi terrificante. Da settimane si sta parlando di riarmo con una insistenza che non pare susciti una preoccupazione ragionevole e allarmata nell’opinione pubblica. Sembra quasi di assistere a una sessione di bilancio all’Ecofin, dove i numeri devono essere tutto, dando per scontato che ciò che rappresentano sia indiscutibile. Eppure si tratta di guerra. Il campo è delicato – potremmo dire minato, se volessimo fare una battuta – e non vorrei prendere le parti di questo o di quello. Di fatto si è affermato un pensiero unico che sta suggerendo una escalation “senza se e senza ma”: riarmo, riarmo, riarmo.

Qualche anno fa sembrava persino troppo arrivare al 2% del Pil, adesso in un fine settimana tutti hanno gioiosamente aderito alla nuova soglia del 5% per le spese militari, entro il 2035. Qualche distinguo preliminare è d’obbligo: dentro quel numero – 5% del Pil: per l’Italia circa 80 miliardi, che potrebbero lievitare indirettamente fino a 200 e più – dovrebbero starci le spese “pure” per la difesa (carri armati, missili, soldati, etc.), fino al 3,5% e poi un residuo 1,5% che potrebbe rappresentare “spese per la sicurezza nazionale in senso lato”, fino a includere “cybersicurezza, infrastrutture critiche, centrali elettriche e reti di telecomunicazione terrestri e satellitari, infrastrutture per la mobilità militare”. Ma anche il Ponte di Messina? Forse. La chiarezza non è stata fatta.

Si sono aperte crepe sia nella maggioranza, sia nell’opposizione: la Lega, con il ministro Giorgetti in testa, ha mostrato molto più della freddezza, di fronte a questo obiettivo. Non foss’altro perché il titolare del Mef sa bene che se si spostano 7-8 miliardi all’anno (per dieci anni) sul riarmo, bisognerà tagliare qualcosa, fino alle carne viva in molte altre voci di spesa pubblica. Nel Pd i distinguo sono meno netti, ma non meno chiari: l’anti-militarismo di Elly Schlein non convince tutta la dirigenza del partito. Non a caso la segretaria non riunisce il direttivo da febbraio. L’ondivago Conte in pochi anni è passato dall’esibizione dell’affettuoso “Giuseppi”, ottenuto in cambio di un militarismo sottoscritto al presidente Usa – ora come allora era Trump – a un pacifismo che sa di plastica. Al netto di questo caravanserraglio all’italiana, resta il “pensiero unico” della stampa che conta, che da settimane intervista solo generali, degli opinion maker di vaglia, degli intellettuali che non vogliono essere ostracizzati, e anzi bullizzano con impertinenza chi osa dubitare, o chi vuole ricordare la Costituzione italiana e la sua ferma dichiarazione di ripudio della guerra.

Ribadisco: mi è difficile immaginare che si possa rivolvere questo tema quasi escatologico con un confronto tra buoni e cattivi, o stupidi contro intelligenti. Se fossimo in una partita di basket, sarebbe auspicabile un “time out”, almeno per un minuto di riflessione, di analisi a mente fredda. Magari davanti al Parlamento, a meno che si voglia certificare l’inutilità della democrazia rappresentativa. Sarebbe anche utile capire se il ministro della Difesa, Crosetto, ha qualche informazione privilegiata che sfugge al suo collega Giorgetti, in questa curiosa gestione dell’elastico spendi-non spendi. Insomma, il riarmo – in Europa così come in Italia – credo che non debba essere stabilito come un dogma. L’unico che potrebbe imporre una verità rivelata, il Vescovo della Chiesa di Roma, pur implorando preghiere, non sembra godere di un ascolto adeguato. Peraltro, papa Prevost deve risolvere la contraddizione che, un secolo fa, faceva ricordare a Gilbert K. Chesterton che “un uomo non può essere un vero cattolico e un vero americano”. Comunque, se il Vicario di Cristo non riesce a imporre dogmi sul tema, perché non ammettere un dubbio laico, illuminista, da parte di chi vorrebbe solo essere illuminato.