Caro Claudio,
mentre leggevo la tua ultima, un fatto di cronaca, la manifestazione grillina contro il riarmo, ha provocato un salto quantico nella mia memoria, che ormai – come la tua immagino – è un’enorme soffitta di famiglia da dove, di tanto in tanto, emergono ricordi familiari: vecchie foto, dischi abbandonati, oggetti dismessi, giocattoli di un’epoca fa. Quindi permettimi questo salto in avanti, provocato da un post su X (Twitter) di Orlando, uno dei pochi esponenti di vecchia scuola PCI ancora presenti nel PD, in cui il nostro – a proposito del dibattito su pace e riarmo europeo – difende la continuità fra l’attuale battaglia sul no al riarmo e le manifestazioni degli anni ‘80 contro gli euromissili. Ad un interlocutore critico verso il suo post, Orlando ha risposto letteralmente: “Io manifestavo per la pace negli anni ‘80, e lei mi avrebbe definito un servo di Breznev”. Ora, “servo di Breznev” è un po’ forte, ma come possa sfuggire a Orlando, 40 anni dopo, che quelle manifestazioni, a cui purtroppo ho partecipato anche io, facevano evidentemente e chiaramente gli interessi di Mosca, mentre al contrario l’installazione degli euromissili fu uno dei fattori che accelerò la disgregazione dell’URSS, è cosa per me incomprensibile.
Magari torneremo a parlarne… Ma adesso – a proposito dei ricordi in soffitta – ti voglio parlare di un episodio che mi è tornato in mente, e che ha avuto un’importanza decisiva nella mia vita. Proprio negli anni ‘80 io ero Presidente di Lega per l’ambiente, poi divenuta Legambiente, ed essa faceva parte delle più ampia federazione dell’ARCI. Bei tempi. Presidente era Enrico Menduni, che svecchiò con decisione la vecchia organizzazione del tempo libero collaterale a PCI e PSI. Nacquero così l’ARCI Gola, ad opera di Carlino Petrini, poi diventata Slow Food, e l’Arci Gay, dove fecero i primi passi Niki Vendola e altri dirigenti poi eletti in vari organismi. Ma torniamo a noi. Qualcuno organizzò a me e Realacci, che era segretario di Legambiente, un incontro a Parigi con alcuni intellettuali polacchi (era l’epoca di Solidarnosc) che ci spiegarono perché secondo loro quella battaglia contro gli euromissili era sbagliata, in quanto aiutava di fatto l’URSS, e che per loro la lotta per la conquista della libertà e la piena indipendenza da Mosca era un obiettivo assolutamente prioritario.
Insomma, con parole gentili ci dissero che facevamo il gioco di Mosca. Dire che ci convinsero completamente sarebbe esagerato, ma il loro punto di vista ci colpì. Al punto tale che decidemmo poco dopo di aderire a una manifestazione milanese di cattolici, per la precisione di Comunione e Liberazione, che aveva nel suo scopo un duplice obiettivo: la pace, ma anche la libertà. Ed era chiaramente polemica nei confronti di quel movimento pacifista che sacrificava la seconda alla prima. E qui viene il bello. L’antefatto è che Enrico Menduni, il Presidente dell’ARCI, alcuni mesi prima aveva deciso di dimettersi per problemi di salute. Come si faceva in quei casi, fu avviata un’ampia consultazione fra i dirigenti dell’Associazione e, in modo quasi unanime, venne indicato il mio nome, che sarebbe poi stato ufficializzato nel Congresso già organizzato. Senonché, dopo la nostra adesione alla manifestazione cattolica, Menduni fu convocato da Aldo Tortorella, responsabile nazionale della cultura del PCI, il quale gli spiegò che Pajetta aveva sollevato un gran casino, leggendo sull’Unità di quella manifestazione, “oggettivamente antisovietica”, per cui il mio nome doveva essere ritirato. Cosa che Menduni mi comunicò immediatamente, ma con un’aggiunta che rappresentava la ciliegina sulla torta. Non si doveva assolutamente dire che la decisione veniva dal Partito, perché questo avrebbe violato l’”autonomia” dell’Associazione, ma avrei dovuto essere io a spiegare perché avevo cambiato idea rispetto a qualche giorno prima, quando avevo accettato l’indicazione scaturita dalla consultazione. Insomma un’enorme ipocrisia.
Lo sventurato, cioè io, rispose: “obbedisco”. Secondo le regole della casa. (Tra parentesi dobbiamo ricordare che nel 1976, quindi diversi anni prima, Enrico Berlinguer rilasciò la famosa intervista a Pansa in cui affermò che era meglio per l’Italia fare parte della NATO. “Mi sento più sicuro stando di qua”, disse letteralmente. Ma andiamo avanti…). Ci fu quindi questa surreale riunione, la ricordo perfettamente, nella mitica sala del Comitato Centrale del PCI, durante la quale tutti naturalmente sapevano il perché della mia rinuncia e sghignazzavano dandosi di gomito, e io dovetti inventare non ricordo onestamente quali straordinarie motivazioni per spiegare la scelta di rinunciare alla candidatura. Cercando a mia volta di non mettermi a ridere. Al mio posto così fu nominato Serri, disciplinato funzionario di Partito, di orientamento ingraiano. Meglio così, onestamente, visto che l’ARCI poi lentamente si spense, mentre Legambiente, dove rimasi, continuò a crescere. Ma questa è un’altra storia. Come è un’altra storia, collegata a questa, quella di un viaggio clandestino che feci per conto degli amici polacchi di cui sopra. Ne riparleremo.
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Caro Chicco,
ma sì, continuiamo pure a parlare della nostra vita nel Pci e dintorni saltando qui e là con la memoria, cercando e trovando spunti nelle cronache dei giorni nostri… in fondo tante cose che ci passano adesso sotto gli occhi, e ci fanno incazzare o sorridere, dimostrano che ci sono leggi della politica sempre uguali a sé stesse, dagli autodafé cui siamo stati spesso costretti, all’esaltazione propagandistica per i numeri farlocchi delle manifestazioni (a proposito dei numeri sparati a caso dai Cinquestelle nella manifestazione che citi, e che anche noi eravamo educati a puntino per montare come panna… magari torneremo a parlarne).
Ma fermiamoci alle tristi storie di autodafé, cui il nostro amato partito ci costringeva. Io dovetti fare una spietata autocritica – anche se non mi fu chiesta la rinuncia all’incarico che avevo, alle mie spalle non incombeva Pajetta – in occasione del referendum sulla scala mobile, parliamo quindi del 1985, qualche anno dopo le sciagurate campagne che dovemmo montare contro gli euromissili, con quei manifesti prodotti da Fabio Mussi che disegnavano una cartina dell’Europa coperta da fiammiferi pronti ad incendiarsi, ricordi? Bene, trascorsa per fortuna senza successo quella stagione di campagne brezneviane, l’ultimo Berlinguer ci condusse verso una nuova battaglia a perdere, passatista e conservatrice, quella per la difesa della scala mobile, il folle meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’aumento del costo della vita che era il più forte incentivo alla crescita dell’inflazione.
Qualcosa che molti anni prima aveva provocato la reazione di Giorgione Amendola che, pur non attaccando frontalmente la scala mobile, disse testualmente: “La sinistra non può rinunciare a una politica dei redditi e alla lotta contro l’inflazione.”, spiegando che coloro che erano i più danneggiati da politiche simili erano proprio i ceti popolari che fingevamo di proteggere con la scala mobile. Ma Giorgio Amendola morì nel giugno del 1980, solitario e inascoltato profeta, e qualche mese dopo, all’indomani del terremoto del 23 novembre dell’80, Berlinguer decise di abbandonare la strategia del compromesso storico, scegliendo la via dell’alternativa. Così la linea del PCI si avviò lungo la china rovinosa della lotta contro gli euromissili, delle manifestazioni per la pace a senso unico, delle speranzose attese di incombenti rivoluzioni ambientaliste e femministe, fino alla follia della raccolta di firme contro l’abolizione della scala mobile e del referendum che ne conseguì.
Nel frattempo anche Berlinguer era morto, schiacciato dentro il vicolo cieco in cui aveva portato il PCI, e nel 1985 il vecchio Natta guidò l’insensata campagna referendaria, tra i gridolini di gioia dei leoncini rampanti della nouvelle vague del partito, che cavalcavano qualunque battaglia antigovernativa e soprattutto antisocialista, e con la debole e inefficace opposizione della componente migliorista del partito, guidata da Napolitano e Chiaromonte. Mentre il povero Lama, segretario riformista della CGIL, era costretto a seguire le indicazioni di bottega. All’epoca ero funzionario di partito a Napoli, mi occupavo di stampa, propaganda e cultura, ma mi sentivo sempre più distante dalle fumisterie ideologiche della linea dominante nel partito. Insieme al mio fratello di militanza e convinzioni Umberto Minopoli e alla residua pattuglia migliorista napoletana, pesantemente sconfitta nel congresso del 1983, cercai di oppormi alla deriva referendaria, ma eravamo una netta minoranza, insomma non contavamo niente. E nel partito del centralismo democratico le cose funzionavano come le hai descritte tu. Una volta fissata la linea, se qualcosa non ti convinceva, dovevi essere tu, più degli altri, a portarla in giro nelle sezioni.
Così decisi di ammutinarmi. Mi detti finanche malato in diverse occasioni – lungo tutta la campagna referendaria – pur di non essere costretto ad andare in giro a tenere comizi e assemblee. La cosa non piacque affatto, e all’indomani della pesante sconfitta del referendum, mi fu rinfacciata, nel corso di una infuocata riunione della segreteria provinciale, in cui fui tacciato in sostanza di essere un traditore, un collaborazionista del craxismo, all’epoca il peggiore insulto che ti si poteva affibbiare. E, per sovrannumero, fui pure aspramente cazziato da Gerardo Chiaromonte, che mi aveva in simpatia, ma mi considerava leggerino, un po’ anarcoide, non abbastanza temprato per le sottili, difficili (e inconsistenti) battaglie dei riformisti. E non aveva neppure tutti i torti. Insomma in quei crepuscolari (per il Pci) anni ‘80, dalle tue parti e dalle mie, la verità è che militanti/dirigenti come noi erano piuttosto maldigeriti.
