Il Pci e la narrazione distorta, tra socialismo reale e cori pro-Pal la realtà non era come sembrava

Caro Claudio,
adesso però ti devo raccontare le mie due esperienze nei Paesi cosiddetti socialisti. Due visite con due vesti molto molto diverse. Comincerei dalla seconda che è stata sicuramente quella più… intrigante. Ti ho già raccontato dei miei incontri con i dissidenti polacchi a proposito di euromissili. Nel 1988 venni contattato da Vlodek Goldkorn, ebreo, polacco, di famiglia comunista. A dispetto del nome, era un importante giornalista dell’Espresso con cui collaboravo saltuariamente. Mi propose di dare una mano alla dissidenza polacca e in particolare a un gruppo un po’ diverso da Solidarność guidato da Walesa, che in quegli anni era di gran lunga il principale oppositore del regime polacco. Kos era il nome del gruppo e si distingueva da Solidarność per il suo carattere laico e di sinistra. Per farla breve, accetto e parto per Varsavia con un bagaglio di svariati pacchi di pasta Barilla che erano stati aperti, svuotati e nuovamente rimpiazzati con fruscianti dollari americani. Naturalmente, nonostante fossi deputato, mi guardai bene dall’informare il Partito, che avrebbe sicuramente avuto da ridire.

Arrivo a Varsavia in una serata fredda e nevosa, vengo preso in consegna da un esponente locale che ritira “il bagaglio” e mi accompagna nell’appartamento di una signora italiana, vedova di un polacco, che ha una camera a disposizione. “Rimani qui che ti facciamo sapere” furono le parole di commiato. E così rimasi 3 giorni in quell’appartamento prima che venissero a prendermi nuovamente. Il problema fu che non avevo previsto questa permanenza e non avevo assolutamente nulla da fare se non aspettare. I due libri che mi ero portato furono presto finiti, non c’erano telefonini, I-Pad o simili, la Tv era per me inguardabile e ammazzare il tempo per 3 giorni freddi e nevosi fu la mia fatica principale. Uscire per strada neanche a parlarne: mi era stato suggerito di restare fermo.

Poi finalmente mi vengono a prendere e mi consegnano alcune di quelle belle scatole quadrate dove una volta erano confezionati i microsolchi da 33 giri, preistoria, ovviamente di musica classica. Solo che anche essi erano stati svuotati e al loro posto c’erano audio cassette registrate con interviste e altre robe a vari esponenti del dissenso polacco. Passare il controllo di polizia mi costò qualche brivido. Sarebbe stato sufficiente sollevare il coperchio di una di quelle scatole, assolutamente non sigillate, per trovare il materiale clandestino. Devo dire che le guardie dei controlli mi sembrarono completamente disinteressate e piuttosto svogliate. E così finì la mia avventura di contrabbandiere di dollari e notizie proibite. Anni dopo Goldkorn pubblicò un articolo sull’Espresso il cui titolo era, vado a memoria, “quando la sinistra portava i dollari degli americani alla dissidenza polacca”. Scoprii di essere uno di diversi corrieri, ricordo fra gli altri Adriano Sofri, e che i soldi provenivano probabilmente, tramite la CISL, anche dai sindacati americani. L’anno dopo il regime filosovietico finì, il muro crollò e il resto è storia. E sotto il muro crollato ci finimmo anche noi.

Comunque, non era la prima volta che mi recavo da quelle parti. Quasi 10 anni prima avevo guidato una delegazione della FGCI in URSS, ospiti del Komsomol, l’organizzazione giovanile del Partito Comunista Sovietico con qualche milione di iscritti. Giovanile per modo di dire. I dirigenti avevano mediamente fra i 40 e i 50 anni. Era il ‘79 e sullo sfondo vi era l’invasione russa in Afghanistan. Ma di questo ti racconto la prossima volta…

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Caro Chicco,
tornando indietro con la memoria devo dirti che, se escludiamo il congresso bulgaro da cui fui cacciato perché masticavo chewing gum, e l’altro viaggio da funzionario di partito nell’Unione Sovietica di Andropov di cui abbiamo già parlato, la mia frequentazione del socialismo reale si esaurisce in qualche viaggio da privato cittadino. Uno a Mosca e Leningrado, dove rimasi intrappolato in un gabbiotto del porto perché avevo abbandonato il gruppo di cui ero parte, e la cosa non piacque alla polizia, che mi tenne bloccato per qualche ora sostenendo che non potevo né uscire né rientrare nella nave da cui ero sceso per visitare la città. Poi un bel viaggio in una cadente ma sempre fascinosa Praga. Infine una piccola vacanza a Budapest, dove subii il più grave degli affronti possibili per un napoletano.

Ero andato a fare un po’ di cambio in nero (un classico dell’epoca). Conclusa la transazione, il tizio che mi aveva appena consegnato un malloppone in cui spiccava una bella banconota rossa da 500 fiorini, mi fa: “Polizia, polizia! Nascondi e scappiamo…”. E io mi ritrovai come un coglione sotto il ponte dello scambio clandestino, con in tasca un bel po’ di carta straccia, che non servì neppure per pagare il conto del bel ristorante di Buda in cui avevo deciso di festeggiare il compleanno di mia moglie (che da allora non smette di prendermi per il culo, per questo episodio oltre che per il resto…). La mia frequentazione dei paesi dell’Est, come vedi molto più ingloriosa della tua, si ferma qui. Per cui, a proposito del PCI e del suo internazionalismo, mi viene meglio parlarti di un altro tema ben radicato nella storia della nostra militanza comune, e cioè del rapporto tra la sinistra italiana e la causa palestinese. Tema peraltro attualissimo.

Li ricordi i nostri frequentissimi cortei del tempo, quando si urlava “A A Al Fatah, Tupamaros, Vietcong”, inneggiando a Yasser Arafat come a uno degli eroi del proletariato mondiale? All’epoca non sapevamo, non capivamo, non volevamo sapere che quest’uomo, capo di Al Fatah, nel mentre andava in giro a predicare la liberazione della Palestina, organizzava il dirottamento di voli civili e attentati in mezza Europa, fu certamente complice se non protagonista della strage operata da Settembre Nero (gruppo legato all’OLP) che uccise 11 atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, e organizzò – tra gli anni ‘70 e ‘80 – raid continui con incursioni e razzi lanciati dal Libano contro Israele, che fecero centinaia di vittime civili. Per tacere del piccolo particolare che, tra una strage e l’altra, accumulava ricchezze colossali (la Corte dei Conti palestinese avrebbe accertato nel 2003 il dirottamento di 900 milioni di dollari sui suoi conti personali).

Ma per il PCI Arafat era un eroe, e la causa palestinese forse la bandiera più sventolata dalla sinistra italiana. Non solo un tema internazionale tra gli altri, ma un vero e proprio segno identitario, una sorta di postura morale. Come non ricordare i comizi conclusivi di Berlinguer nelle feste de l’Unità, quando il canonico inizio dedicato alle questioni internazionali era scandito da interminabili ovazioni per l’OLP (spesso presente fisicamente con il suo leader). E i rapporti più che solidi che il PCI intratteneva con l’organizzazione, con titoloni sparati dall’Unità (“Il PCI per riconoscere l’OLP”) e interrogazioni al governo firmate da Gian Carlo Pajetta perché l’Italia invitasse ufficialmente Arafat, riconoscendo l’OLP come interlocutore politico (il tutto molto prima che l’organizzazione dichiarasse ufficialmente, nel 1988, di rinunciare al terrorismo). Più che normale poi che dal PCI di Berlinguer l’amour fou per i “combattenti” della Palestina si trasferisse ai centri sociali e a tutti i movimenti “alternativi” del terzo millennio, con la kefiah che diventava il simbolo universale della resistenza dei popoli contro gli imperialismi e i colonialismi.

Ma tutto questo era cominciato ai tempi nostri, caro Chicco, quando il conflitto israelo-palestinese si saldò nell’immaginario progressista con le altre lotte di liberazione nazionale: il Vietnam, l’Algeria, il Cile di Allende. E cominciò a cambiare il profilo di Israele, che pure era inizialmente percepito da una parte illuminata della sinistra come “piccolo Stato socialista in mezzo al mondo arabo reazionario”. Furono quei cortei che frequentavamo, urlando slogan senza senso, a trasformare un piccolo avamposto della civiltà occidentale da Davide a Golia, alimentando una narrazione profondamente distorta delle vicende mediorientali, di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi.