Il dottor Harel Chorev è ricercatore senior, storico esperto dei territori arabi in Cisgiordania (Samaria e Giudea) e in particolare dei clan, specie del clan Jabari, retto dallo Sceicco Wadee’ al-Jaabari, detto Abu Sanad, che di recente ha proposto di riconoscere Israele e instaurare rapporti pacifici.
Che ne pensa della proposta dello Sceicco Jaabari di riconoscere lo Stato di Israele e di instaurare rapporti di pace?
«Penso che non si tratti di riconoscere Israele. La cosa importante è che lo Sceicco e i suoi colleghi capoclan, in quattro, stiano offrendo una pace che già esiste con Israele in Cisgiordania, ossia Samaria e Giudea. Israele da tempo è perfettamente coordinata con la leadership degli insediamenti arabi e con persone con cui hanno rapporti di lunga data. Non è una cosa di ieri. Questa famiglia ha avuto una lunga tradizione di legami con Israele. Anche se ogni tanto ci sono terroristi, Hamas, o cose simili che compiono attentati terroristici. Ma in generale, direi che hanno un rapporto speciale con Israele. La vera questione è: ha qualche possibilità di funzionare? E la mia risposta è probabilmente no, perché significherebbe che gli arabi dei territori stanno rinunciando alla loro identità “palestinese”, al loro sentimento nazionale, e non vedo come possa funzionare. Ma lasciamo stare i termini di sentimenti e identità; dal punto di vista pratico, invece, questi clan non possono resistere a un movimento nazionale di massa, che sia Hamas, o Fatah o l’Autorità Palestinese: Fatah domina totalmente l’Anp. I clan non hanno alcuna possibilità contro di esso. Quindi non vedo la possibilità che la cosa maturi. E devo anche dire che nel 2011, e nel 2012, gli stessi clan hanno offerto più o meno la stessa cosa e non ha funzionato allora. Non credo che funzionerà adesso».
Che ruolo hanno i clan e gli sceicchi nella popolazione della Cisgiordania? Anche a Gaza hanno lo stesso ruolo?
«I clan sono l’unità sociale di base sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza; sono molto importanti nella politica locale, ma anche in ogni aspetto della vita, nel benessere economico, nel matrimonio e così via. Di solito gli occidentali non sono consapevoli della loro importanza, e quindi vedono i movimenti politici come se fossero tutto, ma la verità è che ogni cosa nella vita dell’individuo è gestita dalla sua famiglia allargata, o clan o hamula, in arabo».
I clan sono pacifici oppure no? Hanno attività illegali (narcotraffico, contrabbando, violenze)?
«Ogni clan è diverso: ci sono clan noti per le loro attività criminali, altri noti per avere al loro interno molti dottori e persone istruite, ci sono clan di autisti di autobus; c’è una differenza tra un clan e l’altro, e più il clan è grande, e più, probabilmente, vedrete attività diversificate svolte da questo clan. Quindi non si può generalizzare: hanno attività legali che sono molto importanti in quel senso di risoluzione dei conflitti nella sfera palestinese, il diritto consuetudinario noto come sulkha. È il meccanismo principale per risolvere i problemi e le questioni in luogo del sistema statale. Anche nella routine quotidiana i clan sono importanti, perché – a differenza del sistema moderno in Occidente, dove i tribunali si occupano di individui – qui quando hai un problema è un problema interfamiliare: se hai ucciso qualcuno di una famiglia diversa, devi risarcire la famiglia nel suo insieme, hai danneggiato la famiglia nel suo insieme e viceversa, e quindi solo il diritto consuetudinario – noto come sulkha – può risolvere questo tipo di questioni. Questo ci mostra quanto siano importanti i clan come rete di sicurezza per l’individuo; ciò che si vede ora nella Striscia di Gaza ne è un tipico riflesso: quando l’intera organizzazione e il governo sono in crisi, storicamente all’interno della società araba le persone si rivolgono sempre ai loro clan, che rappresentano la loro rete di sicurezza, che si prenderà cura del loro benessere e così via».

«Le relazioni con gli elementi radicali come Hamas e altri movimenti politici e ideologici sono complesse e c’è una differenza tra un clan e un altro: ci sono clan che si identificano con Fatah, ci sono clan che si identificano con Hamas (come il clan Kasme a Hebron), ci sono clan che hanno sia Fatah che Hamas e altre identificazioni politiche. Spesso dipende da quanto è grande il clan, perché ci sono clan di decine di migliaia di membri, 20, 30, 40mila persone che si considerano un unico clan, anche se in realtà sono un gruppo di diverse famiglie organizzate sotto lo stesso nome di clan».
Che rapporti hanno i clan con la popolazione israeliana?
«Il clan Jarber, che ora vedete sui titoli dei giornali mentre offre la pace a Israele nell’ambito di questo cosiddetto piano emiratino, ha relazioni di lunga data con Israele dal 1967, quando vissero, direi, l’età dell’oro sotto lo sceicco Muhammad. Ali al-Jabari era il sindaco di Hebron e collaborava con Israele, ed essi, in sostanza, hanno tratto grandi benefici da questa connessione, considerandosi abbastanza forti da avere una propria politica indipendente per Israele, il che è generalmente positivo dal punto di vista israeliano. Ma ci sono altri clan noti per i loro problemi con Israele, ci sono clan noti per le loro radici ebraiche, sebbene oggi siano musulmani, come gli Elmakham della zona di Hebron, che hanno costantemente bisogno di dimostrare di essere più musulmani degli altri musulmani a causa delle loro note radici ebraiche, quindi ci sono terroristi che escono da questa famiglia. Tutto appartiene all’identità collettiva di quei clan: non vieni giudicato in base ai tuoi meriti come individuo, ma piuttosto in base alla reputazione della tua famiglia. Se provieni da una “buona” famiglia, questo è tutto ciò che devo sapere su di te; probabilmente sarai anche una brava persona, anche se hai una cattiva reputazione. È la famiglia a contare, questo è tutto».
Il governo israeliano come si comporta con la popolazione araba pacifica non violenta e non militante?
«Bene: Israele non ha alcun interesse a disturbare o molestare le popolazioni pacifiche, e penso che sia qualcosa che è stato ulteriormente sviluppato dalla Seconda Intifada, perché fino alla Seconda Intifada inclusa Israele era solita utilizzare molte misure collettive, non necessariamente punitive, ma se aveva un problema con un villaggio, lo chiudeva, bloccava gli ingressi al villaggio, e controllava tutti. Cose che fondamentalmente tendevano a dire alla popolazione: “Non fate come loro”. Ma questa politica è cambiata dalla consapevolezza che a volte è stato controproducente».
