Giovanni Falcone il 3 ottobre 1991, pochi mesi prima di essere trucidato a Capaci, in una intervista sottolineava come il nuovo codice di procedura penale, che da pochi anni era entrato in vigore, esigesse un pm iperspecializzato che «nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri ». Ma questa posizione non gli veniva perdonata, veniva accusato di voler rendere il pm succube della politica.
E lui così si difendeva: «Chi, come me, richiede che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte». Sono le parole di Falcone che ancora oggi danno fastidio e nonostante le celebrazioni in ricordo della strage di Capaci in pochi ricordano questa sua battaglia che da vivo gli fece il vuoto intorno.
