Il progresso è genio e talento, app per tracciare i movimenti sono il futuro

Tira un’ariaccia da pogrom contro la tecnologia, le macchine, la scienza, gli scienziati e aumentano gli zombi che scatarrano in televisione sul dualismo fra materia e spirito, scienza e fede, perché un vento di ignoranza di default – “io la matematica non l’ho mai capita, ma a scuola ero bravo in italiano” – per cui gli intellettuali non sanno distinguere fra l’uso di una padella e quello di un iPad reclamando il profumo della pagina di carta così come il mercante di Venezia Shyilock rivendicava la sua oncia di carne. Se permettete, un piccolo passo indietro, please.

Noi umani come lo siamo oggi, nell’ultima versione sapiens-sapiens, appena apparsi sulla Terra, siamo roba di appena centomila anni fa: prima giravano per valli e savane progetti e tentativi poi scartati di ominidi tutti estinti, anche se dopo qualche festoso aperitivo con regalini geneticamente reciproci di Dna. Ieri mattina, ci siamo trovati all’alba del Neolitico scomposti, affamati, predatori sanguinari capaci solo di consumare e rapinare: ammazzavamo, predavamo, ripulivamo un chilometro quadrato prima di spostarci sul successivo. Poi, prima di cominciare a lasciarci Sms nelle caverne (ti amo, c’è un bestione, c’è roba da mangiare…) qualcuno disse: fermiamoci un attimo.

Ognuno sa fare una cosa diversa dall’altro, proviamo a far fruttare le abilità: mungiamo quella maledetta capra, alleviamo le galline e facciamoci qualche broccolo nell’orto. Nacquero più figli, città, asole ai pantaloni, minestre decenti, cibo secco per i mesi d’inedia e fuoco per le notti di gelo. Fu un attimo e volammo, eravamo su treni a vapore, trasmettevamo la voce col telefono, col videotelefono, allungavamo la vita fino a ottant’anni, siamo andati a frugare sulla Luna e moriamo dalla voglia di Marte. E dovunque crescono e si producono rimedi ai mali, l’organizzazione della vita comune è una scienza come i collegamenti.

Quando sento quelli che loro – per carità – vorrebbero tornare all’inchiostro, li rispedirei in gita nel Giurassico, ma solo perché diventai un ragazzino positivista dopo aver letto sia Ventimila leghe sotto i mari che L’Isola Misteriosa di Jules Verne, il resto venne da sé. Oggi cominciamo ad avere macchine straordinarie e siamo all’inizio. Sappiamo, troppo tardi, che la cosa più giusta da fare per sbarrare la strada al virus sarebbe stata tracciare i contagiati sani e individuarli col telefonino lungo scie in movimento e non è mai troppo tardi. Del resto io vedo sul mio cellulare (e con il loro consenso) come si spostano i miei figli che vivono in America e loro vedono me.

Mio padre era un ingegnere della vecchia scuola e quando arrivò questa roba elettronica e l’avvento delle macchine pensanti, sentì che la sua epoca era finita. Gli ingegneri avevano allora nel taschino, là dove Conte tiene il fazzoletto) un righello bianco con un cursore mobile con cui calcolavano tutto. Ma con approssimazione. Se chiedevo a mio padre quanto facesse sette per otto, lui da tecnico che non è tenuto alle tabelline, tirava fuori il regolo e dopo un paio di equazioni rispondeva “fra cinquantacinque e cinquantasei”. Questo potere discreto della mentalità tecnica mi faceva impazzire. Quando, per una mia falsa partenza alla facoltà di Medicina detti l’esame di fisica con Edoardo Amaldi (un mostro di scienza, allievo di Fermi e antagonista di Oppenheimer, per via della bomba atomica) dopo due ore di interrogatorio mi bocciò, con uno sguardo sorridente e feroce allo stesso tempo.

Avevo risposto impeccabilmente su tutto e in particolare sul valzer degli elettroni intorno a un magnete, ma avevo omesso di pronunciare quattro paroline rituali obbligatorie: “per unità di volume”. E quando chiesi disperato di risparmiarmi la bocciatura, mi rispose che, essendo io un ottimo studente di fisica bisognava tenere “la biada alta per i cavalli di razza”. Poi ho studiato filosofia della scienza, logica formale e intanto facevo il cronista per vivere, ma il mio rapporto con scienza e scienziati è rimasto quello e con un elemento distintivo di cui mi sono accorto col tempo: gli scienziati, i medici, i fisici, biologi, astrofisici, sono in genere persone coltissime in storia dell’arte, musica e letteratura.

Da mio padre che costruiva ferrovie ho imparato a cinque anni a distinguere il barocco dal romanico, e il gotico dal gotico cistercense. I letterati. in genere – con non molte eccezioni – sono delle vere bestie, in fatto di scienza e tecnologia e del resto a scuola non si studia più in filosofia la distinzione fra scienze deduttive ed induttive, fra scienze sperimentali e scienze cosiddette esatte, benché Galileo e Newton siano stati messi in crisi da Einstein, il quale era furioso con Planck e la fisica quantistica che mandava a puttane la relatività ristretta.

Oggi, con la modesta peste Covid che l’incuria e l’inettitudine dei politici di mezzo mondo ci hanno inflitto come un flagello (uno dei milioni che la venerata madre natura ci regala da quando siamo al mondo) noi grazie alla tecnologia siamo in condizioni infinitamente migliori rispetto a quelle in cui si trovavano i nostri nonni di fronte alla Spagnola (ne abbiamo scritto ieri) che ammazzò fra i cinquanta e i cento milioni di esseri umani, storpiandoli anche nel sistema nervoso. Mio nipote Elio, di cinque anni, quando lo chiamo, sbuffa: “Basta videochiamate! Per favore, non vedete che sto leggendo?”. Ma intanto siamo tutti appollaiati sui social che non sono propriamente la tecnologia, ma un uso di connessione grazie al quale ci vediamo, parliamo, ci azzuffiamo e ci amiamo, almeno finché siamo connessi.


Pochi di voi ricorderanno quando i russi lanciarono nello spazio una sfera di latta con dentro una radio che emetteva dei bip. Era lo Sputnik e i poeti come Salvatore Quasimodo si scatenarono in un’apoteosi dell’homo faber, poi replicato dalle imprese spaziali di Yuri Gagarin e German Titov (di soli 25 anni) prima che gli americani si lanciassero con il loro programma Apollo che portò l’uomo sulla Luna. Che l’uomo avesse creato un satellite e poi cento mille centomila con cui far rimbalzare ogni impulso e verso e nota e suono è un’emozione subito perduta, come tutte.

Se ne avessi la forza, almeno quella della disperazione, vorrei solo urlare: smettete, in nome del vostro Dio, della ragione, del vostro interesse, della civiltà e del principio del bene collettivo e individuale, di parlare male della tecnologia e ripetere in preda a lividi conati nei talk show televisivi (senza contraddittorio) che la tecnologia è la scienza, che non è vero. Che la tecnologia è arida e materialistica. Che tutto ciò che è spirituale è estraneo alla materia e dunque alla scienza e non parliamo della tecnologia.

C’è un mondo che si rifiuta di considerare almeno in via di ipotesi, che la Fisica dei quanti, quella della relatività e la conoscenza in genere hanno da tempo mostrato l’equivalenza della materia e dell’energia e se volete anche dello spirito che si manifesta attraverso i fenomeni. La tecnologia non è in competizione con la natura umana, così come non lo sono i robot e l’intelligenza artificiale, perché nessun manufatto umano è consapevole di se stesso, non è in grado di provare dolore e sfuggirlo e non è in grado di sperimentare il piacere e cercarlo e di temere la morte come fine esistenziale irrimediabile. Tutto ciò appartiene e apparterrà all’uomo e non esistono conflitti fra una lavastoviglie, per quanto complessa, e il pensiero di Immanuel Kant e anche della signora del piano di sotto.

Un mio caro amico fisico appena scomparso, il professor Gino Garrefa sfidava gli studenti: se vi lancio questo mazzo di chiavi e vi fornisco i dati dell’accelerazione, distanza, peso e traiettoria, siete capaci di calcolarla in un decimo di secondo? La risposta era sempre: no. Allora lui lanciava il mazzo di chiavi che veniva colto al volo da una mano e spiegava che nessun computer oggi e per molto tempo sarà in grado di calcolare istantaneamente un mazzo di chiavi. Oggi le applicazioni sono diventate le condizioni dello sviluppo dell’intelletto e i bambini insegnano ai genitori l’uso delle piccole macchine e certamente fanno anche molti giochi cretini, ma che saranno sempre meno cretini dei giochi con le biglie di terracotta che facevo io alla loro età.

Lancio un mio petardo contro il luogo comune secondo cui la Natura è buona e saggia, costretta a reagire oltraggiata contro le corruttele e le violenze dell’uomo, invariabilmente egoista, avido di denaro, spogliatore di ricchezze, parassita e inquinatore. Provate a rovesciare il binocolo e guardate il mondo dal punto di vista opposto: la Natura, produttrice di ogni dolore, virus, tsunami, istinto predatore, veleno, agguato, terremoti, epidemia carestia e biblici flagelli, ha prodotto l’essere umano, questo vermetto su due piedi nudi e privo di pelliccia, che per conto dell’intero mondo ha cominciato a comprendere come il mondo è fatto e come migliorarlo con le tecniche, WiFi come le irrigazioni, satelliti come lo Sputnik che ormai trasmettono i segnali di tutti i pensanti con tutti i pensanti, con le medicine che nascono nei laboratori, con le macchine complesse che collegano i nervi di un arto tagliato con una protesi che permette di camminare e di vivere.

Gli esempi sono troppi e dunque noiosi. Ma noi oggi, proprio oggi in mezzo al Covid e tutte le cazzate di un governo di improvvisatori, possiamo dire che il nostro è un governo di incapaci perché altri governi, come quello della Corea del Sud, Taiwan e anche la Germania di Angela Merkel, hanno sperimentato come usare la tecnologia della tracciabilità, i movimenti della malattia e di chi ne è portatore, mentre in alcuni nidi d’aquila lavorano dei modesti matematici che creano modelli statistici e li passano al computer per creare confronti, osservare variazioni, inventare e inventare.

È finito il mestiere del maniscalco che ferrava i cavalli, è finito anche il giornalaio che vendeva giornali e le librerie hanno i giorni contati perché i libri si stampano nell’etere e si leggono sui tablet, così come il sovrano strumento che è il pianoforte, è ormai un attrezzo da museo perché nuove macchine musicali sanno fare ciò che nessuno prima avrebbe osato immaginare e l’immaginazione è continuamente sfidata, messa sotto stress e superata là dove lavorano gli sceneggiatori delle serie televisive costretti ad anticipare i tempi, abbreviare i punti morti, cogliere il segno del nuovo per rinnovare le librerie e offrire un oggetto nuovissimo che deve già essere vecchio quando viene al mondo perché è superato dal prossimo modello, non per famelicità materialistica, ma perché così funziona il progresso ed è il progresso che, fra tentativi errori e correzioni di errori, ci allunga la vita, ci allunga il pensiero, la speranza, l’amore, la passione e – sì – la spiritualità di cui molti seguitano a parlare come se fosse un universo fiabesco riservato agli intelletti superiori che non possono restare ancorati alla Terra. Il novanta per cento della materia oscura che compone l’universo è ignota ma attiva e non si sa che idee abbia. Ciò che accade dentro e oltre un buco nero, è ignoto. La divisione fra presente, passato e futuro è vecchia. Le macchine, i nostri occhi stanno indagando e seguiteranno ad indagarle. E intanto stasera vediamoci via Skype.