Incontriamo Enrico Morando, oggi presidente di Libertà Eguale, già parlamentare dal 1987 al 2018 e viceministro dell’Economia nel governo Renzi. In questa conversazione, Morando ripercorre le radici garantiste della sinistra sul tema giustizia, difende la separazione delle carriere e lancia un messaggio netto al Partito democratico: non si possono sacrificare princìpi per logiche di schieramento.
Morando, lei ha affermato con forza che il Partito democratico avrebbe dovuto votare la separazione delle carriere. Da dove nasce questa convinzione?
«Sì, diciamo che il punto di partenza in questo ragionamento è il lavoro che la sinistra riformista su questo tema ha sviluppato nel corso degli anni e che poi ha trovato, in particolare nelle posizioni di Libertà Eguale, un suo sviluppo coerente. Faccio riferimento ai precedenti nell’elaborazione del PCI e nel PDS».
Partiamo dal PCI. Come si schierò allora?
«In un primo tempo nel PCI si sviluppa una discussione che sembra alludere a una posizione contraria, ma poi, quando il referendum viene ammesso ed effettivamente bisogna decidere che cosa votare, si sviluppa un confronto tra i sostenitori dell’ipotesi del sì e del no che porta il PCI – sulla base di un lavoro guidato da Aldo Tortorella, che era il responsabile dei problemi istituzionali – a decidere di votare a favore. Il referendum si tiene ed è un grande successo perché il sì ottiene l’80,21% e il popolo chiede che si istituisca una qualche forma di responsabilità civile dei magistrati».
Nel 1997, al congresso PDS, presentaste un emendamento sulla giustizia. Di cosa si trattava?
«Con Macaluso proponemmo di introdurre l’obbligo di motivare la mancata azione disciplinare verso i magistrati, come già accade per l’azione penale. Non passò, ma ebbe comunque un buon consenso».
Che ruolo ebbe Tangentopoli in questo percorso?
«Durante Tangentopoli si sviluppa una discussione interna molto accesa. Voglio ricordare in particolare Giovanni Pellegrino, giurista e senatore, che insisteva su un punto fondamentale: l’equilibrio tra i poteri. Diceva: dopo la crisi verticale della politica, si è aperto un vuoto riempito dai poteri di controllo – in primis la magistratura – che hanno iniziato ad esercitare una funzione di supplenza. Il sintomo più evidente? L’uso della categoria del consenso da parte dei magistrati, che non dovrebbero tenerne conto. Quando i poteri di controllo usano la logica del consenso, è segno di squilibrio. Pellegrino diceva: non servono bavagli alla magistratura, servono riforme. Ed è in questa scia che nel 1999 approviamo – assieme al centrodestra – l’articolo 111 della Costituzione, il principio del giusto processo».
E proprio a partire dall’articolo 111, lei sostiene che la separazione delle carriere diventa una necessità. Perché?
«Se il giudice deve essere terzo e imparziale, come può avere la stessa carriera del pm, che è una delle parti del processo? Si è tentata la distinzione delle funzioni, ma è insufficiente. La riforma recentemente approvata in prima lettura contiene uno strafalcione grillino – il sorteggio – che è una misura disperata e sbagliata. Ma sarebbe bastato dire: togliamo il sorteggio e votiamo insieme la separazione delle carriere, proprio come facemmo con l’articolo 111. Invece il centrodestra si è chiuso a riccio e il centrosinistra ha fatto l’errore opposto, dicendo no a tutto. Il Pd avrebbe dovuto fare una scelta razionale e dire: “Sulla separazione delle carriere ci siamo”. Invece ha rischiato di gettare via decenni di elaborazione riformista».
Chi teme che la separazione delle carriere metta a rischio l’autonomia del pm non ha torto?
«Questo è un argomento che non sta in piedi. La separazione delle carriere non implica affatto la subordinazione del pm all’esecutivo. Questo rischio va impedito con chiarezza, certo. Ma l’autonomia e l’indipendenza della magistratura giudicante e requirente si possono e si devono preservare anche dentro un sistema che prevede carriere separate. Anzi, è proprio il mancato riconoscimento di questa esigenza a creare una contraddizione con l’articolo 111».
A proposito di magistratura e politica: oggi ci sono diverse indagini che coinvolgono amministratori locali, da Ricci a Emiliano, fino a Sala. Come giudica questa situazione?
«Non voglio entrare nel merito di procedimenti specifici, ma sul caso Milano si può e si deve dire qualcosa. La magistratura deve accertare responsabilità penali su fatti concreti, non censurare scelte discrezionali della pubblica amministrazione o giudicare un’intera politica urbanistica. Quella è materia del dibattito pubblico, non dell’azione giudiziaria. Dario Di Vico in un recente articolo analizza lo sviluppo della città di Milano. Mette in luce successi importanti, ma anche uno squilibrio nel rapporto tra salari, profitti e rendita. Un tema reale, ma che va affrontato politicamente. Sala, che stimo, ha mostrato consapevolezza di questo squilibrio e ha tentato un riequilibrio sociale nel progetto del Pirellino, imponendo oneri per l’edilizia sociale. Il Tar ha dato ragione, ma il Consiglio di Stato ha annullato. Però quello era un intervento politico, non penale».
Quindi, secondo lei, è sbagliato collegare discontinuità politica e interventi giudiziari?
«Esattamente. Non si può dire: “Mi fido di Sala, però ci vuole discontinuità”. È quel “però” che non funziona. Se c’è bisogno di riequilibrare, si discute nel merito. Ma se la discontinuità diventa una reazione all’intervento della magistratura, è un errore. La magistratura non deve correggere la politica. La politica si corregge da sola, attraverso il confronto democratico».
