Mentre Israele si prepara a rioccupare interamente la Striscia di Gaza, tornando in un territorio abbandonato vent’anni fa, il mondo si trova davanti a un bivio fatto di confusione strategica e paralisi politica. Da mesi, il governo guidato da Benjamin Netanyahu conduce una campagna mirata alla capitolazione militare totale di Hamas.
Ora questa strategia culmina in una decisione formale: riprendere possesso, in modo deliberato e a tempo indeterminato, di ciò che resta del territorio controllato dal gruppo terrorista. Non si tratta più di un’azione militare temporanea né della creazione di una zona cuscinetto: è una nuova occupazione, esplicita, dichiarata.
Qualcuno potrebbe considerarla l’esito inevitabile del 7 ottobre. Ma questa mossa segna una frattura profonda con l’ordine globale e con i princìpi che, almeno in teoria, lo hanno regolato finora. L’Occidente, che a parole difende il diritto di Israele a esistere e a reagire agli attacchi terroristici, si scopre ora incapace di elaborare una risposta coerente. Di fronte a una realtà che richiede chiarezza e determinazione, prevalgono ambiguità, calcoli elettorali, e un relativismo morale sempre più tossico.
Mentre Hamas continua a utilizzare la popolazione civile come scudo umano e mentre gli ostaggi israeliani marciscono nei tunnel sotto Gaza, le capitali europee e le istituzioni internazionali oscillano tra dichiarazioni generiche e appelli vuoti.
Si teme l’escalation, ma si ignora che la vera escalation è già avvenuta: è quella della barbarie, dell’odio, del cinismo. Il ritorno di Israele a Gaza non è solo un fatto militare o geopolitico. È un segnale. Dice che, in assenza di un ordine mondiale capace di difendere il diritto e la civiltà, gli Stati democratici sono costretti a fare da sé. E mentre molti si indignano per questa scelta, pochi si chiedono davvero quale alternativa realistica sia rimasta.
