Il voto di facciata sul nucleare e il crollo dei principi leninisti: così il PCI si avvicinava alla fine

Caro Claudio,
devo parlarti di energia nucleare, una storia che mi ha accompagnato per tutta la vita e ancora mi accompagna. La prima volta che me ne occupai fu nel 1979, spedito dalla FGCI di Milano ad un’assemblea studentesca di non ricordo quale liceo. La posizione del Partito era chiaramente a favore dell’energia nucleare. Da sempre.

Negli anni ’50, addirittura, il PCI pubblicava un fumetto per ragazzi il cui protagonista era “Atomino”, un ragazzetto che si batteva per l’energia nucleare “di pace” contro la bomba atomica. Energia che intanto l’URSS, di cui eravamo “fratelli”, accumulava a più non posso (ma questa è un’altra storia). Fatto sta che mi trovai a difendere la “linea”, avendo studiacchiato rapidamente la questione, contro un esponente di Avanguardia Operaia naturalmente antinucleare. Il tutto nella completa indifferenza degli studenti, che approfittavano dell’ora di dibattito concessa per farsi gli affari loro. Poi venni nominato Segretario di Legambiente (allora si chiamava Lega per l’Ambiente) e capii subito, con il poco intuito politico di cui dispongo, che un movimento ambientalista a favore del nucleare sarebbe stato contronatura.

Letteralmente impossibile. I Verdi tedeschi dettavano la linea a tutta Europa. Quindi cominciammo con Legambiente (e con l’ARCI) a partecipare a iniziative contro il nucleare. Apriti cielo. Non sai quanti cazziatoni mi presi – per la verità sempre in modo assai cortese, ma fermo – da quel galantuomo di Gianfranco Borghini che aveva la responsabilità dell’energia. Io ascoltavo e continuavo come prima. Il Partito non era più quello di una volta, quando sarei stato espulso in un batter d’occhio. Intanto, però, un certo dissenso rispetto alla linea si andava diffondendo, soprattutto tra gli ingraiani e le giovani leve. Così arriviamo al Congresso del PCI di Firenze, nella primavera dell’86, quando Bassolino e Mussi presentano una mozione che chiede una pausa di riflessione sul nucleare. La democrazia comincia a farsi largo anche nel PCI, rompendo la rigida tradizione di un centralismo democratico calato dall’alto verso il basso. C’erano stati altri congressi con forti dissensi, ma mai si era arrivati al voto come invece avvenne a Firenze.

All’atto della votazione la mia netta impressione fu che la mozione antinucleare avesse vinto – si votava per alzata di mano – ma Gianni Cervetti che fungeva da scrutatore fece solo un rapidissimo conteggio e dichiarò che la mozione era stata battuta. Devo dire che nessuno fece obiezioni. Già sembrava molto che si fosse votato e che molte mani si fossero alzate in favore della mozione. Ma addirittura rovesciare la linea ufficiale sembrava troppo anche ai proponenti, che infatti fecero buon viso a cattivo gioco. Manco a farlo apposta – vedi le coincidenze della storia – due settimane dopo successe l’incidente di Chernobyl che naturalmente cambiò tutto. Con il referendum dell’87, in cui tutti i partiti – con l’eccezione di PRI e PLI – si dichiarano contro l’energia nucleare la storia si chiude.

Non è che i favorevoli all’energia nucleare avessero tutti cambiato idea, ma era letteralmente impossibile fare diversamente dopo l’emozione suscitata da Chernobyl. E qui devo fare una postilla. Come sai ho cambiato idea sull’energia nucleare e sono passato con la minoranza che la sostiene. Ho scritto un libro per spiegare perché e perché questo cambiamento sia stato frutto di riflessione e non di un colpo di sole. Diciamo che ci sono due argomenti principali. Il primo è che le conseguenze negative di Chernobyl e anche di Fukushima sono state enormemente sopravvalutate per ragioni propagandistiche. Il secondo è che se veramente vogliamo decarbonizzare la produzione di energia non vedo proprio come si possa fare senza energia nucleare. L’ Italia ha pagato a carissimo prezzo l’uscita dal nucleare: un errore di cui sono stato coautore, e a cui cerco tardivamente di porre rimedio. E comunque anche oggi mi ritrovo in minoranza, almeno a sinistra, visto che il Partito in qualche modo erede del PCI, vale a dire il PD, è schierato tutto contro il nucleare. Per non parlare del campo largo. Ma non dispero che le cose possano cambiare.

Caro Chicco,
di nucleare e dintorni, come di energia e più in generale di contenuti – alti, argomentati, puntuali – il maestro sei tu. Io sono sempre stato – o meglio ho imparato ad essere – uno che ha fatto sua l’antica, lapidaria definizione di Rino Formica, che un giorno disse “la politica è sangue e merda”, intendendo dire che non parliamo di un esercizio accademico, ma di conflitto, lotta, rischio. La politica è un ring dove si combatte per decidere carriere e assetti istituzionali, che fa morti, feriti e sopravvissuti, in cui bisogna sempre mettere in conto lo scontro – appunto – sanguinoso con l’avversario di turno. Quanto alla “merda”, ovvio che Formica si riferisse ai compromessi poco decorosi, alle trattative sporche, alle diffamazioni, alle calunnie, ai giochi di corridoio di cui è costellata l’attività politica. Insomma all’inevitabile fango che si solleva quando si combatte sul terreno del potere.
Non voglio ridurre a questo la lotta politica che si svolgeva nel PCI, anche perché al tempo la battaglia si svolgeva in forme più ovattate e ipocrite, in qualunque partito. Ma lo stesso voto sul nucleare al congresso di Firenze che tu racconti – in definitiva un voto finto – testimonia il carattere autoritario, paternalistico, nella sostanza truffaldino della vita interna del partito. Ed eravamo allora solo agli inizi della fine di quel “centralismo democratico”, che almeno aveva il merito di non fingere: nel vecchio PCI si poteva anche discutere, poi le decisioni erano sempre prese da un gruppo ristrettissimo di persone. E tutti zitti. Mentre, con il venir meno del più sacro dei principi leninisti, la progressiva correntizzazione avrebbe letteralmente sconvolto modalità organizzative, rapporti interni, relazioni personali. Non voglio esagerare, ma la fine del PCI, quasi più che con la caduta del Muro, cominciò quando crollò quel principio intoccabile. Era il centralismo democratico che ci faceva “diversi”.
Giusto per fare un esempio del caos che ne seguì, ti racconto un episodio che mi riguarda direttamente (tanto parliamo di “reati” caduti in prescrizione…). Nel 1991 – quando eravamo ampiamente diventati solo un accrocchio di gruppi tenuti insieme da principi vaghi e fungibili, un rassemblement nel quale la fedeltà alla corrente di appartenenza sopravanzava di gran lunga quella al partito – si tenne il congresso di Rimini, in cui nacque ufficialmente il PDS, ma Achille Occhetto – unico candidato – non fu eletto segretario. Un banale incidente organizzativo, si disse: i delegati erano in gran parte tornati a casa e, al momento del voto, non si raggiunse il numero legale. La mancata proclamazione si trasformò però subito in una specie di tragedia: Occhetto andò a nascondersi e nessuno lo trovava più, i suoi colonnelli erano nel panico, i vecchi del partito non si capacitavano di tanta insipienza organizzativa. Quelle che seguirono alla mancata elezione furono ore frenetiche. Di ritorno in auto a Roma, lungo un Appennino innevato, D’Alema cominciò a darsi da fare per ricucire la ferita, rifiutando le profferte di chi gli consigliava di cogliere l’occasione per fare le scarpe a Occhetto (io in primis, che ero in macchina con lui e con Antonio Luongo…), e riuscendo poi a rimetterlo in sella nel Consiglio nazionale convocato d’urgenza dopo qualche giorno. Ma veniamo al punto: quel “banale incidente organizzativo” era stato effettivamente tale? Più no che sì. Perché, nella nottata precedente al voto, la composizione del Consiglio nazionale era stata ampiamente alterata da due napoletani che facevano parte della commissione elettorale ristretta (io, in rappresentanza dalemiana, e Umberto Minopoli, in quota miglioristi) che insieme aiutarono la componente bassoliniana a crescere di numero, naturalmente aumentando in proporzione le loro rispettive quote. Il tutto a scapito della componente occhettiana, il cui rappresentante, l’adorabile e civilissimo Claudio Petruccioli, era andato a dormire (fidandosi dei due napoletani…), e si ritrovò la mattina dopo ad annunciare la lista di un Consiglio nazionale gonfiato con persone a lui del tutto sconosciute, di certo non fedeli del segretario, e che – al momento del voto – si dettero alla macchia, erano già in viaggio o circolavano fischiettando nei paraggi. Insomma, non si fecero in quattro per alzare entusiasticamente la mano e incoronare nel giubilo generale il segretario. La politica è “sangue e merda”, diceva Formica. All’epoca si cominciava ad esagerare. Dopo, le cose sono peggiorate.