Nell’angosciosa ricerca del tempo perduto, il Pd ricorda la vicenda biblica (si parva licet) della Torre di Babele. Con quell’opera gli esseri umani vollero sfidare il cielo, innalzandola a dei livelli insostenibili per la sua base. Dopo il suo crollo si accorsero di non parlare più la stessa lingua. E’ quanto sta succedendo nel Pd dove è in corso l’organizzazione di un congresso in cui il popolo dem dovrebbe ritrovare un linguaggio comune.
Ma più si avvicina la data dell’evento palingenetico, più il gruppo dirigente del Pd fa a gara per prendere le distanze da se stesso di prima, trasformando con le proprie mani e con un accanimento masochistico i meriti in demeriti (è il caso della presa di distanze dal jobs act) e indicando per il suo prossimo futuro il ritorno a istanze riconducibili all’idea e alla prassi di una sinistra che ritorna ai fondamentali, per recuperare un elettorato che – deluso – si è spostato sempre più a destra, seguendo un percorso la cui razionalità ci sfugge. Assistiamo con interesse e partecipazione (ma anche con viva preoccupazione) al nuovo viaggio del Pd, ricordando però quanto diceva Concetto Marchesi: chi inizia una ricerca sa già quello che si aspetta di trovare, mentre chi parte dal nulla approda solo al nulla. In questa ricerca sarebbe bene partire dall’inizio ovvero come e da dove il Pd è nato. Il Partito democratico è il prodotto di due abiure di ex comunisti ed ex democristiani.
Ambedue le componenti erano reduci di ideologie, di dottrine e di culture pesanti, di pensieri forti. Ambedue avevano preso le distanza, per motivi diversi, dalle loro radici. Gli ex comunisti si erano pure rifiutati di rientrare nell’alveo del socialismo europeo (a parte l’adesione all’Internazionale socialista con l’avallo di Bettino Craxi), accontentandosi della vaghezza del dichiararsi democratici ancorchè di sinistra. I secondi si erano rifugiati nell’usbergo dei cattolici ‘’adulti’’ laicizzando in proprio la dottrina etica e sociale della Chiesa. Ma per stare insieme nel Partito democratico (importato dall’amerikano Walter Veltroni) le due componenti furono costrette ad adottare un basso profilo ideale, sprovvisto di solide basi teoriche che non fossero quelle incluse nel libro ‘’Cuore’’.
In fondo, anche se le ideologie sono defunte, i liberali conservano una loro visione del mondo, dei rapporti istituzionali, economici e sociali; anche i socialisti democratici – tutti sono andati, prima poi, a svernare a Bad Godesberg, a se qualche sprovveduto se ne sta pentendo – costituiscono un filone ideale e culturale di antiche tradizioni; i popolari sono gli eredi del cattolicesimo liberale e democratico. All’interno di queste grandi tradizioni di pensiero ci sono delle differenze importanti, spesso conflittuali ma sono presenti valori fondanti comuni. Ecco perché il primo problema che deve affrontare il Pd è quello di darsi una identità, di trovare un pensiero forte, finanche un’ideologia. Più che una contaminazione degli ideali politici delle diverse componenti vi è stato una sostituzione nei ruoli.
Nel Pd erano diventati tutti democristiani nella gestione del potere; oggi rischiano di diventare tutti comunisti nelle politiche. Nessuno fino ad ora si è posto una domanda che in questi giorni – di fronte allo scandalo del Qatargate – dovrebbe venire spontanea. Perché in Europa i dem stanno con i socialisti (anche se hanno chiesto di cambiare il nome del Pse in S&D, perché sono convinti che sia sufficiente una nuova anagrafe per uscire dalle difficoltà), mentre in Italia mostrano una diversa carta di identità? E’ possibile che tra le tante congetture circa il proprio futuro nessuno pensi di tornare al passato, magari rivisitando Livorno, per guardare l’erba dalla parte delle radici?
