In Italia hanno chiuso 19mila stalle e c’è un problema di dipendenza dall’estero

Negli ultimi anni la zootecnia bovina italiana ha attraversato una fase di profonda trasformazione, segnata dalla riduzione del numero di allevamenti, dalla crescita delle importazioni e da un contesto internazionale sempre più competitivo. Serafino Cremonini conosce bene le criticità strutturali del settore, il ruolo delle politiche pubbliche e le leve necessarie per rafforzare la base produttiva nazionale. E avverte: «Abbiamo una base produttiva insufficiente, che rende l’Italia dipendente dai ristalli esteri».

Negli ultimi dieci anni hanno chiuso 19 mila stalle: è solo un problema dimensionale o stiamo perdendo un pezzo strutturale della zootecnia italiana?
«Il dato va letto in modo equilibrato. C’è stata una concentrazione: hanno chiuso soprattutto allevamenti piccoli, mentre quelli più strutturati si sono rafforzati. Questo processo ha consentito a una parte del settore di restare competitiva anche in un contesto europeo complesso. Allo stesso tempo però il patrimonio zootecnico complessivo si è ridotto e questo ha inciso sulla capacità produttiva del Paese. La filiera ha dimostrato capacità di adattamento, ma permangono criticità strutturali legate alla riduzione della base produttiva. Il rischio è che la perdita numerica degli allevamenti si traduca, nel medio periodo, in una perdita di massa critica produttiva e di presidio del territorio. La sfida oggi è rafforzare la base produttiva nazionale e riportare investimenti in allevamento, evitando che la razionalizzazione si trasformi in un indebolimento strutturale del settore».

Oggi la carne bovina italiana copre appena il 37% dei consumi: quali sono i principali colli di bottiglia?
«Il limite principale è una base produttiva insufficiente, che rende l’Italia dipendente dai ristalli esteri. Questa dipendenza espone il settore a maggiore volatilità dei prezzi e a rischi di approvvigionamento. Negli ultimi anni abbiamo visto come problemi sanitari o riduzioni dell’offerta nei Paesi fornitori abbiano un impatto diretto sui costi e sulla disponibilità di capi. A questo si sommano costi elevati e difficoltà di investimento. Rafforzare la produzione nazionale è quindi una priorità, non solo per aumentare l’autosufficienza, ma anche per rafforzare la tenuta complessiva della filiera, riducendo l’esposizione a shock esterni; ed è in questo quadro che Coltiva Italia rappresenta un intervento importante, perché mette risorse proprio sul rafforzamento della filiera».

Quanto pesa il nuovo equilibrio globale dei consumi sulla sicurezza delle forniture europee e italiane?
«Pesa perché aumenta la competizione e la volatilità dei mercati. In Europa la produzione è in contrazione e questo rende più fragile l’equilibrio delle forniture. La crescente domanda globale di proteine animali e la concentrazione dell’offerta in poche aree del mondo accentuano queste tensioni. In questo contesto, per Paesi strutturalmente importatori come l’Italia, diventa ancora più importante ridurre le fragilità interne e garantire reciprocità negli scambi, affinché le importazioni rispettino gli stessi standard produttivi e sanitari richiesti ai produttori europei, evitando distorsioni competitive a danno delle imprese nazionali».

Lei dice che il problema non è la domanda ma la capacità produttiva: cosa serve per invertire la tendenza?
«La domanda tiene, il nodo vero è la capacità produttiva. Servono politiche che diano stabilità, orizzonte agli investimenti e sostegno alla ricostruzione del patrimonio zootecnico, oltre a una maggiore integrazione di filiera, permettendo alle imprese di programmare nel medio-lungo periodo. In particolare è fondamentale ridare fiducia agli allevatori, perché senza una prospettiva chiara molti rinviano gli investimenti. La capacità produttiva non si ricostruisce in pochi mesi: servono continuità e coerenza nelle politiche di sostegno».

La possibile riduzione delle risorse PAC dal 2028 quanto rischia di incidere sugli allevamenti?
«Il rischio esiste, soprattutto se la PAC dovesse perdere efficacia e focalizzazione. Per un settore già sotto pressione, una riduzione delle risorse potrebbe incidere negativamente su redditività e investimenti. La zootecnia ha bisogno di strumenti mirati, non generici, che tengano conto dei costi specifici dell’allevamento e del ruolo strategico che svolge nelle aree rurali. È fondamentale mantenere strumenti che sostengano la competitività delle imprese zootecniche».

La linea vacca-vitello è davvero la chiave per ridurre la dipendenza dai ristalli esteri?
«È una delle leve più importanti. Rafforzare la linea vacca-vitello significa aumentare i capi allevati in Italia, mantenere un presidio produttivo e ambientale sul territorio, e rendere la filiera meno vulnerabile alle crisi esterne. È una scelta strategica che agisce alla radice del problema della dipendenza dall’estero. Inoltre consente di valorizzare aree marginali e interne, dove l’allevamento svolge una funzione economica e sociale insostituibile».

Come rendere la zootecnia più attrattiva per i giovani allevatori e garantire continuità industriale?
«Servono redditività, stabilità e prospettive chiare. Con regole certe, strumenti adeguati e una visione di lungo periodo, la zootecnia può tornare ad essere attrattiva anche per i giovani e garantire continuità industriale alla filiera, rafforzando il ricambio generazionale e la sostenibilità del settore nel tempo. I giovani chiedono soprattutto accesso al credito e strumenti per investire nella modernizzazione delle aziende, oltre a innovazione e semplificazione. Se queste condizioni vengono create, la zootecnia può tornare a essere una scelta imprenditoriale credibile».