Trascorrono i secoli e la Storia della Colonna Infame resta di grande attualità. A Milano, Manzoni la scrisse per offrire un contributo alla cultura politico-giudiziaria; ma alla luce delle ultime vicende della procura siamo punto e a capo, e daccapo. I pm milanesi hanno fatto flop sull’inchiesta “sistema urbanistico” per ben sei volte: prima la scarcerazione di tre indagati, poi degli altri tre. Per Dante Alighieri il tre è il numero della perfezione e della conoscenza; per la smorfia, il sei non è certo da commentare in questo contesto. Ma perché quei sei erano stati arrestati? Perché, secondo i pm, vi era il “pericolo di reiterazione del reato”. Eppure, viva Iddio, come avrebbero potuto reiterarlo se nel frattempo si erano già dimessi dagli incarichi?

Il Tribunale del riesame ha così demolito l’impianto accusatorio costruito per oltre un anno sul cosiddetto “sistema urbanistico”. Sul tavolo c’era di tutto, ad abundantiam gli aggettivi, tranne i reati gravi: nessuna corruzione, nessuna tangente, nessun passaggio di denaro. Ora si attendono a settembre le motivazioni degli annullamenti e delle revoche. Una cosa però è certa: qualunque sia la formula, l’inchiesta sarà devastante per la procura. Sul “sistema”, invece, sarà la storia a dire l’ultima parola su “Milano verticale”, quella dei grattacieli e della riqualificazione urbana.

Intanto Milano è stata sbattuta in prima pagina, con la retorica delle “mani sulla città” di memoria napoletana-laurina. A farne le spese, l’immagine del capoluogo, degli imprenditori, degli architetti, degli amministratori e soprattutto del sindaco. Saggio è stato Beppe Sala a non dimettersi, visto come si sta concludendo la vicenda. Il caso è stato montato con toni che ricordavano il pool di Mani Pulite. Ma i giudici del riesame non sono fatti della stessa pasta del gip Italo Ghitti, allora allineato al volere della procura guidata da Francesco Borrelli. L’alone di sacralità di Tangentopoli – spesso costruito calpestando lo Stato di diritto – è svanito da tempo. Allora la custodia cautelare era usata come grimaldello: l’imprenditore restava in cella finché non faceva un nome politico, solo così poteva sperare nella libertà. Ne derivò una narrazione distorta: imprenditori perseguitati, politici persecutori. Come se le tangenti fossero estorte dai partiti e non, spesso, offerte dagli stessi imprenditori in cerca di appalti. Non è il caso odierno. Oggi i giustizialisti, pronti a esaltarsi per una nuova Tangentopoli, hanno dovuto ridimensionarsi, accontentandosi di qualche raduno sotto Palazzo Marino. Di fatto, la procura di Milano, dopo i “fulgidi” – o meglio famigerati – anni di Mani Pulite, ha iniziato a perdere colpi.

L’esempio più emblematico resta l’inchiesta Eni-Nigeria: dopo quattro anni, tutti gli imputati dei due procedimenti per presunta corruzione internazionale sono stati assolti. Il pm Fabio De Pasquale ha sostenuto l’accusa in tre processi, ma nell’ultimo non ha mai depositato atti favorevoli alle difese, omissione per la quale è stato condannato. Secondo il tribunale di Brescia, se quei documenti fossero stati resi disponibili in tempo, gli imputati sarebbero stati assolti già in udienza preliminare e si sarebbe evitata la condanna in primo grado, poi ribaltata. Il dottor De Pasquale non è nuovo a vicende controverse: fu lui a condurre l’inchiesta su Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, morto suicida nel carcere di San Vittore dopo che gli era stata negata per l’ennesima volta la scarcerazione. Un epilogo tragico che resta una ferita aperta. Dal passato “glorioso” per tricoteuses e manettari al presente inglorioso, in cui i malcapitati apprendono dai giornali di essere indagati, la musica non cambia.

I pm dell’inchiesta urbanistica ne hanno fatte di tutti i colori, e l’indagine non avrebbe avuto alcun senso senza il politico di turno. La ciliegina sulla torta si chiama Pierfrancesco Maran, europarlamentare del Pd, le cui chat sono state acquisite in violazione delle sentenze della Corte costituzionale. Una vicenda che ha messo in difficoltà Elly Schlein, proprio mentre conduce la sua battaglia contro la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Ma lei, come sempre, ha fatto il pesce in barile. Talvolta la legge del contrappasso è implacabile: Maran si è ritrovato nello stesso tritacarne che tolse il sonno a Matteo Renzi e Stefano Esposito, ai quali la Consulta diede ragione e torto alla procura. Eppure, davanti a questa situazione, il Partito democratico non muoverà un dito contro la procura milanese, neppure di fronte alla violazione del libero esercizio del mandato parlamentare, uno dei principi cardine della democrazia liberale e dello Stato di diritto.

La Costituzione italiana, che la vulgata definisce “la più bella del mondo”, per molti osservatori stranieri non lo è mai stata: Francesco Cossiga ricordava che in Inghilterra la consideravano “la più brutta del mondo” e ne spiegava le ragioni. A conti fatti, la mutilazione dell’articolo 68 decisa dal Parlamento nel 1993 ha indebolito la democrazia rappresentativa, lasciando i deputati più esposti al potere giudiziario. Quella che un tempo era la “capitale morale”, alternativa a “Roma ladrona” per dirla con lo slogan della Lega Nord di Umberto Bossi, rischia oggi di restare prigioniera di un giustizialismo senza giustizia, che logora le istituzioni e indebolisce la fiducia nello Stato di diritto.