Da alcuni mesi si assiste a una nuova stagione di attivismo giudiziario che attraversa l’Italia da nord a sud, in parallelo all’avvio della campagna elettorale per le regionali d’autunno e al dibattito sulla riforma della giustizia.
I casi di Genova, Bari e Lecce
Tutto è cominciato con Genova: l’arresto del presidente della Liguria, Giovanni Toti, ha segnato un evento clamoroso, culminato nelle sue dimissioni e nella riapertura del capitolo sui rapporti opachi tra politica e imprenditoria. Poi è toccato a Bari, dove le indagini sul voto di scambio con la criminalità organizzata hanno colpito al cuore il sistema politico locale, portando alla luce un tessuto clientelare ormai difficilmente occultabile. Restando in Puglia, a Lecce, un’inchiesta ha fatto emergere un intreccio tra politica, imprenditori e consulenti. Risultato: le dimissioni dell’assessore regionale Alessandro Delli Noci. Una vicenda ancora avvolta nel “porto delle nebbie”, tanto che nemmeno gli aruspici saprebbero spiegare con chiarezza le ragioni del suo coinvolgimento.
Il caso Milano, di Pesaro e della Sicilia
A Milano è esploso lo scandalo “Palazzopoli”: 74 indagati, tra cui il sindaco Beppe Sala e l’assessore alla Rigenerazione urbana, Giancarlo Tancredi, che ha lasciato l’incarico. Le accuse spaziano dagli abusi edilizi agli scambi di favori nel contesto delle trasformazioni urbanistiche. A Torino, la Procura ha notificato gli avvisi di conclusione delle indagini per il caso Rear, cooperativa attiva nei servizi di vigilanza e accoglienza. Tra gli otto indagati figurano il deputato PD Mauro Laus, ritenuto presidente e amministratore “di fatto”. Ultima, in ordine di tempo, la vicenda che coinvolge Matteo Ricci, candidato in pectore del centrosinistra nelle Marche, indagato per presunti affidamenti diretti, privi di trasparenza, a due associazioni culturali durante il suo mandato da sindaco di Pesaro. E poi c’è la Sicilia, “granaio” inesauribile di inchieste, dove esponenti di Fratelli d’Italia risultano coinvolti in vicende che spaziano dalle irregolarità amministrative alla sanità. Un quadro frastagliato, ma tutt’altro che casuale, che deflagra proprio mentre il governo vara una riforma della giustizia ambiziosa e divisiva.
La separazione delle carriere
Al centro, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e la proposta di creare due Consigli Superiori della Magistratura distinti: uno per la funzione giudicante, l’altro per quella requirente. Un cambio radicale rispetto al modello attuale, unificato e permeabile tra le funzioni. I sostenitori della riforma – in primis il centrodestra – la presentano come una misura di civiltà giuridica, utile a garantire l’imparzialità del giudizio e a contrastare il correntismo. I detrattori la considerano un attacco all’autonomia dell’ordine giudiziario e un possibile scardinamento dell’equilibrio costituzionale. A dirimere la contesa sarà il referendum popolare previsto per la primavera del 2026. Gli elettori saranno chiamati a scegliere: a favore della riforma – e quindi del doppio CSM e della separazione delle carriere – oppure contro, in difesa del modello unitario introdotto nel 1958. Una consultazione destinata a ridefinire, forse per decenni, i rapporti tra politica, giustizia e cittadinanza.
Una campagna referendaria al calor bianco
Per come si stanno muovendo i dirigenti Dem, si prefigura una campagna referendaria “al calor bianco”, spostata non tanto sulla riforma della giustizia, quanto sulla Costituzione. Stanno scegliendo un terreno ideologico, che alla fine potrebbe rivelarsi un boomerang. Nel tentativo di inseguire il M5S, hanno finito per rimuovere che quella riforma – almeno in origine – era nelle corde del loro stesso impianto politico. Nel frattempo, mentre le inchieste colpiscono a macchia di leopardo, ma con una certa selettività, si fa largo il sospetto che una parte della magistratura – corporativa, giustizialista, affiancata da un populismo d’impronta pentastellata – stia operando per delegittimare la politica e colpire il Partito Democratico in vista delle elezioni politiche del 2027. Giuseppe Conte, da parte sua, non arretra di un passo nella corsa a Palazzo Chigi e continua a esercitare il fuoco amico dove può. Più Elly Schlein ribadisce che l’alleanza con il M5S è “irreversibile”, più Conte le tende trappole: dalla partita delle candidature alle presidenze regionali, fino alla politica estera, passando per un moralismo etico eretto a programma. Al Nazareno cresce il malcontento. In molti chiedono una linea meno succube nei confronti del M5S. Da qui emergono due correnti per svincolarsi dall’abbraccio ambiguo di Conte: la prima vorrebbe costruire un soggetto simile alla “sinistra indipendente” di una volta, più moderato e spostato a destra rispetto al PD schleiniano, il cui baricentro appare troppo inclinato a sinistra.
La seconda guarda invece al centro, strizzando l’occhio a una forza sul modello di Azione di Calenda. Entrambe, però, procedono a rilento e con scarsi riscontri nei sondaggi. Manca soprattutto una leadership credibile. E così Conte continua a dettare l’agenda, facendo leva sul consueto moralismo “catoniano”, a volte in proprio, altre volte per interposta persona. Emblematico il caso di Chiara Appendino, che ha chiesto le dimissioni del sindaco Sala dimenticando, forse, che fu proprio lui – all’epoca dei suoi guai giudiziari – a difenderla pubblicamente. Un attacco diretto a Sala, ma anche un colpo indiretto a Schlein, la cui solidarietà al primo cittadino di Milano è apparsa forzata, ma leale. Anche sul caso Ricci i 5 Stelle storcono il naso, perché – secondo loro – bisogna essere come la moglie di Cesare. Questo vale per amici e avversari, ma non per loro stessi. Un modo di ragionare che, del resto, non appartiene solo ai pentastellati. È la strategia tipica del populismo giudiziario: più attento ai codici penali che a quelli politici, più incline a puntare il dito che a costruire visioni. E nel frattempo, difende con le unghie e con i denti i propri privilegi di sistema.
