Intervista a Ezio Sinigaglia: “Sono un corteggiatore dell’estremo e del proibito”

Stupisce che una scheda di lettura in casa Mondadori, datata 1980, concernente il Pantaréi – il romanzo di Ezio Sinigaglia che, nonostante l’interesse dell’allora direttore letterario Vittorio Sereni, fu snobbato dalla casa editrice milanese come dalla maggioranza degli editori italiani dell’epoca – ne sconsigliasse la pubblicazione, se non a patto di una generosa potatura. Non stupisce che quella scheda di lettura recitasse: «i personaggi si scolpiscono nella memoria del lettore». Proprio quella maestria di Sinigaglia, capace di infiltrarsi come un tarlo nella memoria di chi legge, è stata riscoperta negli scorsi anni dalla piccola casa editrice barese Terrarossa. A riprova di una scommessa vinta quarant’anni dopo, nell’ultimo romanzo, Fifty-Fifty. Warum e le avventure Conerotiche, Sinigaglia si avvale di una lingua da anatomopatologo, sinestetica e percettibile sotto le dita, per comporre come su un pentagramma i tre anni, sei mesi, dodici giorni della storia d’amore di Aram – soprannominato Warum poiché impegnato a trascorrere la vita alla ricerca di un perché – e Stefano, chiamato Fifì, da Fifty-Fifty, per questa sua propensione a non concedersi mai per intero, sempre metà e metà, al di là e al di qua di ogni visione d’assoluto. Già nell’endecasillabo che corolla l’incipit del romanzo, «Fifì non vuol saperne. Non gli piace», Sinigaglia restituisce lo “strabismo erotico” del suo personaggio, afflitto dall’incomunicabilità tra il suo cervello, vittima d’amore, e le restanti parti del corpo, che tiranneggiano in risposta ai colpi della sensualità dell’amante.

Non sopravvivono alla sagacia dell’autore neppure i riferimenti dichiarati più o meno scopertamente a Woolf, Proust, Conrad, James e addirittura a Tasso, scomodati per essere rovesciati consapevolmente di senso, in chiave umoristica. «L’amore è una tragedia, un ridicolo errore, dagli effetti nefasti, incalcolabili» in questo romanzo, che sfida l’ideale estetico sintetizzato da Walter Pater nel Rinascimento, per il quale tutta l’arte costantemente aspira alla condizione della musica, e proprio questa, in Fifty Fifty, funge da correlativo oggettivo all’ingerenza della morte. Ezio Sinigaglia rinnova sul Riformista le sue riflessioni sul gioco degli specchi degli amanti, ignari della deformità delle immagini che ne ricavano e che pur tuttavia continuano a inseguirsi nei riflessi.

“Fifty-Fifty” si regge su coppie di antitesi speculari: la bisessualità dei protagonisti, giovani affamati di vita e già compromessi con l’inevitabilità della morte. Esiste, pur solo nella finzione, un escamotage per giungere a una totalità?
Sì, ci sono nell’ordito del romanzo tre coppie di antitesi: l’amore e la sua irrealizzabilità, il gusto della vita e l’ineluttabilità della morte, la musica e il silenzio. Una sintesi ideale la si può trovare in quella “sete di assoluto” che il Narratore evoca più volte come suo principale movente. Questa è chiamata in causa, nel primo volume, quasi sempre in relazione al cielo stellato, ma nella seconda parte verrà evocata in rapporto alla bisessualità di Aram: la sua “ardente aspirazione all’assoluto” si sarebbe scontrata fin dall’inizio contro un grave ostacolo: «l’inadeguatezza della [sua] vagina»! Ecco un limite anatomico che in qualche modo simboleggia tutti i limiti metafisici, biologici e culturali che rendono impossibile attingere all’assoluto, senza per questo rendere meno necessaria e ardente l’aspirazione a raggiungerlo.

I suoi personaggi sono accostati a una miriade di nomi e soprannomi, che sono – per citare uno dei suoi libri – una “Imitazion del vero”. Questa ricorsività ha a che fare con una certa predestinazione?
L’adagio latino nomen omen sembra informare di sé l’intero edificio dei rapporti di Aram con il suo prossimo. Ribattezzare gli amici (e gli eventuali nemici) è evidentemente, per il Narratore, un modo di avvicinare il nomen all’omen, rendendo saggia una massima piuttosto discutibile e sibillina.

“Fifty-fifty” è stato definito un romanzo dell’amor platonico, impossibile. La mia percezione è che si tratti di amori non convenzionali, vissuti solo attraverso lo sguardo di terzi, relazioni nelle quali l’appagamento trova forme altre di sublimazione sensoriale. Mi sono chiesto se sia davvero necessario congiungersi nella consuetudine della carnalità per perseguire la completezza di un rapporto. Magari è proprio questo il punto di vista di Fifì: concedersi non nella sottrazione, bensì nella sublimazione.
Penso che un po’ di mistero su quest’anomalo rapporto è bene che resti tale. C’è qualcosa di inesplicabile, che dovrebbe indurre il lettore a interrogarsi e a fornire risposte, fondate sulla sua esperienza o sulla sua immaginazione. E c’è in arrivo una seconda parte che potrebbe cambiare le carte in tavola. Certo è che Fifì sembra aspirare a un amore cristallino e immacolato, un’idea angelica che forse gli deriva dal suo passato di chierichetto. C’è un desiderio di sublimazione, in lui, è vero. D’altra parte ricerca continuamente contatti fisici con Warum. Warum invece vorrebbe l’amore carnale, tutt’altro che immacolato, ma nello stesso tempo sta al gioco di Fifì gustandone gli aspetti più gratificanti. Ci sono contraddizioni in entrambi, insomma. E se nessuno dei due avesse le idee chiare?

Riprendendo in mano il “Pantarèi”, mi sono imbattuto in un dialogo tra Dario e Matteo, che credo possa avere più di una tangenza con i discorsi tra Warum e Fifì: «-Ho detto cosa pensi del sesso non del sesso degli angeli. -Penso che è importante. Ma non è l’unica cosa. -Io invece penso che sia importante solo se non lo si fa. Perché se si fa non ci si pensa». Nella genealogia dei suoi personaggi, in che rapporto di familiarità si trovano queste due coppie di ragazzi?
Mi congratulo con lei per aver reperito una potenziale analogia così ben nascosta. La storia di Dario Sax è infatti chiusa – letteralmente – a doppia mandata nel mio romanzo d’esordio. Nella scatola del Pantarèi c’è una seconda scatola, che si incontra proprio alla fine, costituita dall’Altro Sax, romanzo giovanile e incompiuto scritto da Stern, il protagonista del Pantarèi. Sta chiuso in questa seconda scatola l’amore non corrisposto, e quindi obtorto collo platonico. Sax è sicuramente una proiezione autobiografica di Stern, ma è una proiezione nella quale lo stesso Stern non si riconosce più. Stern può essere in parte una proiezione autobiografica dell’autore. Forse anche Aram lo è? Come per Stern, non è possibile escluderlo. La genealogia è questa. Stern è un Sax meno infantile, e Aram potrebbe essere uno Stern più maturo, più in là con gli anni.

Dall’ambientazione erotico-vacanziera in villa, che ricorda “Specchio delle mie brame”, all’estetica camp dei suoi personaggi, tutti melomani, come ne “L’Anonimo lombardo” e in “Fratelli d’Italia”, i rimandi al primo Arbasino sono dunque inevitabili. Dove situa la sua produzione narrativa rispetto al prolungamento della Linea lombarda che credo arrivi fino ad Arbasino e a Busi?
Già altre volte, riferendomi al registro umoristico dei miei romanzi, ho parlato con molta autoironia di una linea lombarda Manzoni-Gadda-Arbasino che potrebbe prolungarsi fino a me. Sarà forse una questione di clima? Non so. Arbasino è un autore che molti hanno chiamato in causa parlando di Fifty-fifty, e una ragione ci sarà di certo. A mio parere le differenze prevalgono sulle somiglianze, sia dal punto di vista stilistico e narrativo sia da quello delle atmosfere. Mi limiterò a sottolineare la distanza che separa la melomania di Aram, che è rivolta alla musica pianistica e strumentale e che si estende alle avanguardie del Novecento, dalla melomania tipica dell’estetica camp, concentrata sul melodramma dell’Ottocento soprattutto italiano e sulle sue vestali e profetesse. Penso in tutta franchezza che Aram sia un personaggio molto sui generis e che dalla sua personalità prenda luce un romanzo in cui l’originalità prevale sulla tradizione, lombarda italiana o europea che sia. Mi sento un po’ geloso di questa unicità.

Che effetto fa passare dall’essere stato ignorato per decenni da un’editoria miope all’essere candidato allo Strega, per poi comparire nei programmi all’università di Bologna?
Sotto il profilo personale, tutto questo è qualcosa di imprevisto e di molto divertente, che rende meno sconfortante la mia vecchiaia. Luigi Weber ha inserito due miei romanzi in un corso di italianistica intitolato La letteratura e l’estremo. È un tema nel quale mi sento a mio agio. Ho sempre pensato che un artista debba, come i grandi esploratori del ‘400-’500, corteggiare e costeggiare i confini del conosciuto, e spingersi magari al di là del consentito. Non c’è arte senza audacia. Fin dal mio romanzo d’esordio, ho cercato di mantenermi fedele a questo ideale. Anche se, naturalmente, l’estremo l’ho sempre corteggiato e costeggiato a modo mio, cioè in un registro sarcastico e paradossale. Ora viviamo un periodo storico così estremo e così affollato di fatti estremi, che i corteggiatori dell’estremo e del proibito stanno cominciando a destare un certo interesse. Non c’è di che illudersi, ma forse c’è una piccola luce in cui sperare.