Mentre la Repubblica Islamica vacilla sotto il peso della guerra, dell’isolamento internazionale e della tensione interna crescente, è una risorsa essenziale e apparentemente banale come l’acqua a mostrare oggi con più crudezza il fallimento sistemico del regime iraniano. Il presidente Masoud Pezeshkian, eletto da poco con la speranza di un rinnovamento interno, si è trovato ad ammettere pubblicamente ciò che ogni iraniano sa da tempo: il Paese è in ginocchio. “Non abbiamo acqua sotto i piedi, né dietro le dighe,” ha dichiarato senza filtri. Un’ammissione rara, per un leader della Repubblica Islamica, che ha suscitato la furia dei conservatori, ma che al tempo stesso ha evidenziato un punto chiave: la crisi idrica non è più solo un problema ambientale, ma è diventata la metafora perfetta della crisi del potere.
In questo scenario drammatico, ha avuto enorme risonanza il messaggio in lingua persiana che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha indirizzato direttamente al popolo iraniano. In esso, ha promesso che Israele, una volta che l’attuale regime sarà rimosso, aiuterà gli iraniani a risolvere definitivamente la carenza d’acqua. Non si è trattato di una provocazione gratuita, ma di un’offerta strategica, costruita sull’orgoglio israeliano per la propria eccellenza tecnologica nel campo della desalinizzazione e del trattamento delle acque reflue, settori in cui Israele è effettivamente tra i leader mondiali. Il messaggio era chiaro: la salvezza non verrà dal regime, ma da un cambiamento interno. E la tecnologia, in questo caso, diventa veicolo di diplomazia e strumento politico. Per il regime iraniano, già colpito militarmente e sanzionato diplomaticamente, questa narrazione è un veleno potentissimo.
Per decenni ha costruito la propria legittimità sulla retorica della resistenza, sui nemici esterni, il grande e il piccolo Satana (gli USA e Israele), sulla superiorità morale rispetto all’Occidente. Ma ora deve fare i conti con una realtà in cui l’“entità sionista” parla direttamente alla popolazione iraniana in persiano, offrendo aiuto concreto dove la Repubblica Islamica ha solo promesso sacrifici e ottenuto rovine. L’acqua, bene primario e simbolo di vita, viene usata da Netanyahu come moneta di scambio: la promessa è di abbondanza, ma il prezzo è politico. Serve un regime-change, non più suggerito in modo velato, ma apertamente invocato.
La reazione ufficiale iraniana è stata rabbiosa, come previsto. I leader hanno accusato Israele di essere responsabile della crisi idrica stessa, arrivando ad affermare che caccia israeliani avrebbero colpito le condutture principali del nord di Teheran. Al di là della veridicità di queste affermazioni — assai dubbia — è evidente che il regime sta cercando di trasformare il problema in uno strumento di propaganda, nel disperato tentativo di ribaltare la narrativa. Ma ormai il danno politico è fatto: Pezeshkian, in un altro momento di disarmante onestà, ha detto pubblicamente che “non c’è altra via che trattare” e che “se ricostruiremo le strutture nucleari, ce le distruggeranno ancora”. L’idea che non esistano più alternative al negoziato è già, per i conservatori, una sconfitta ideologica.
Netanyahu ha colto questo vuoto e lo ha riempito con un’offerta: concreta, tecnologica, linguistica e psicologica. Parlare al popolo iraniano non solo significa scavalcare il regime, ma implica riconoscerne la legittimità umana e politica, in netto contrasto con la dottrina dei mullah che tratta il popolo come suddito e non come interlocutore. In questo senso è rivoluzionario ciò che ha detto Pezeshkian: “Parlare apertamente dei problemi significa rispettare la consapevolezza del popolo, che è il vero padrone del Paese”. Promettere acqua — in un Paese dove l’acqua è sparita — non è propaganda. È un messaggio potentissimo che mette a confronto due modelli: uno basato sul culto della morte, sul martirio e sull’isolamento, l’altro sulla tecnologia, sulla cooperazione e sulla sopravvivenza.
Alla fine, la domanda cruciale non è se il regime cadrà, ma se il popolo iraniano è pronto a capire che sopravvivere, oggi, significa scegliere un futuro radicalmente diverso da quello che gli è stato imposto. E che un futuro in cui l’acqua torni a scorrere dai rubinetti potrebbe non essere solo un sogno, ma un progetto realizzabile — a patto di avere il coraggio di cambiare.
