Istat: solo un italiano su quattro frequenta attività culturali

Il rapporto sul Benessere Equo e Solidale 2023, pubblicato dall’Istat lo scorso aprile, tra le altre cose interessanti ci racconta anche, in un paio di dense pagine, lo stato della partecipazione culturale fuori casa degli italiani.

Nel 2022, ci spiega il Rapporto, più di 3 italiani su quattro non hanno svolto attività culturali fuori casa: non hanno frequentato siti archeologici, monumenti o musei, non si sono recati a concerti di musica classica, di musica in genere o a spettacoli teatrali.

Fa caso a sé il cinema che, comunque, soffre di una drammatica perdita di presenze nelle sale. Se poi andiamo al 2019, anno pre pandemico e apice dell’incremento dei consumi culturali in Italia, troviamo che su 100 persone con più di 6 anni quasi 70 non erano mai entrati in un museo nei 12 mesi precedenti all’intervista, che diventano 88 se parliamo di concerti di musica classica, 78 se si tratta di spettacoli teatrali o di concerti non classici, mentre solo un italiano su due era entrato in un cinema. Un dato drammatico, tanto più se lo confrontiamo con l’Europa. Secondo i dati 2015 di Eurostat l’Italia si colloca ampiamente sotto la media europea dei consumi culturali della cittadinanza: terzultima nello spettacolo dal vivo e ventiduesima nella fruizione monumenti, siti archeologici e musei.

Di fronte a dati del genere ci si aspetterebbe, e ci si sarebbe aspettato anche negli anni scorsi, un generalizzato allarme e azioni incisive da parte dei governi che si sono avvicendati. E invece no. Il fatto che due terzi degli italiani siano esclusi o si auto escludano dalla partecipazione culturale sembra non comportare conseguenze. Sembrano bastare, ai governi, alla politica e anche a buona parte degli operatori, i numeri fantasmagorici del turismo, i milioni di biglietti staccati e le file interminabili per accedere a una manciata di musei. Ma che in quelle file manchino drammaticamente proprio i cittadini italiani, i consumatori potenziali di prossimità, coloro che contribuiscono con la fiscalità generale al sostegno economico di musei e luoghi di cultura, teatri e sale da concerto, non sembra essere un fatto rilevante.

È probabile, tra l’altro, che se il nostro paese raggiungesse anche solo i dati medi europei di consumo culturale, per non parlare dei primi posti di quella classifica, l’intero sistema organizzativo e di finanziamento del settore (l’Italia si attesta da anni al penultimo posto per finanziamenti pubblici al settore culturale) sprofonderebbe sotto il peso della sua assoluta inadeguatezza. È in atto da anni un processo di elitarizzazione del consumo culturale, di trasformazione di un segmento fondamentale del diritto di cittadinanza e del welfare italiano, in un privilegio per turisti paganti e per i cittadini delle ztl. Chi va di meno al museo e a teatro, ci dicono i dati, sono i cittadini del sud, quelli che vivono nelle città più piccole, i più anziani, le persone con minore formazione scolastica, con redditi più bassi, ovvero chi già vive un diritto di cittadinanza mutilato.

Trovo davvero straordinario che nella sua iperattività il MIC, fino ad oggi, non abbia trovato il tempo per riflettere su come riconquistare quel pubblico potenziale della cultura che non trova forme e modi di fruizione adatti ai novizi, che non si siano elaborate prassi di accoglienza e accompagnamento per chi si trova disarmato sulla soglia di musei, teatri e sale da concerto.
Far entrare in un museo o in un teatro almeno una parte di quegli italiani riluttanti (e poi farli tornare) dovrebbe essere tra gli impegni più pressanti di ogni decisore politico, tanto più del Ministro della cultura: più delle inaugurazioni, dell’aumento delle tariffe per la concessione e pubblicazione di immagini o dei biglietti dei musei. Sicuramente più che imporre nuove egemonie culturali, vane e irrealizzabili, lo capirebbe anche un bambino, se mancano i fruitori di cultura.