L’antisemitismo si traveste da solidarietà sotto le spoglie dell’attivismo pro-Pal

È la frase più usata nel mondo. E anche la più pericolosa. Una dichiarazione che sembra ragionevole, quasi civile: “Non siamo contro gli ebrei, solo contro Israele”. Ma dietro quella formula apparentemente neutra si cela una delle operazioni retoriche più efficaci degli ultimi decenni: la normalizzazione dell’antisemitismo sotto le spoglie dell’attivismo pro-Pal. Nel nome della “solidarietà al popolo palestinese”, l’odio contro gli ebrei è stato ripulito, sdoganato, rilanciato. Non servono più le svastiche. Bastano le kefiah. Non servono i Protocolli dei Savi di Sion. Basta dire “Israele genocida”.

Siamo di fronte a un antisemitismo nuovo nei modi, ma antico nei contenuti: non più declinato in termini razziali o religiosi, ma “politici”. È il nuovo linguaggio dell’odio. Più elegante, più accettabile, ma altrettanto tossico. La struttura retorica è semplice e perfetta. Ma nella pratica si nega al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, si accusa Israele di ogni crimine possibile e si chiede la cancellazione dello Stato, apertamente o tra le righe. Questa non è critica politica. È odio etnico mascherato da militanza. È la costruzione di un’eccezione morale e storica che si applica solo agli ebrei. Gli slogan sono sempre gli stessi, dall’apartheid al sionismo. Li senti nei cortei, nei campus, nei comunicati stampa di Ong, nelle redazioni di certi media occidentali. Il lessico cambia, ma la logica è identica all’antisemitismo classico: demonizzare, disumanizzare, delegittimare.

Vuoi capire se l’antisionismo che hai davanti è davvero solo “politico”? Basta fare qualche domanda semplice. Quanti altri Stati sono nati da una guerra, come Israele nel 1948? Perché chiedi il ritorno dei profughi palestinesi ma non degli ebrei espulsi dai Paesi arabi? Perché Israele non può difendersi come qualsiasi altro Stato sovrano? Perché non parli mai degli uiguri, dei curdi, degli yazidi? Perché ti dà fastidio la stella di Davide, ma non la spada di Hamas? Quando le risposte diventano vaghe, imbarazzate o cariche d’astio, il problema non è Israele. È l’ebreo. È lì che la “critica politica” si rivela per ciò che è: un pregiudizio sistemico.

Il 7 ottobre 2023 Hamas ha compiuto uno dei peggiori massacri contro civili ebrei dalla Shoah. Donne stuprate, bambini bruciati vivi, ostaggi rapiti, corpi mutilati. E il mondo ha reagito giustificando. Anche senza dirlo apertamente. Nessuna manifestazione per le vittime israeliane. Nessun corteo per gli ostaggi. Nessun grido di indignazione contro Hamas. Anzi: articoli, post, dichiarazioni che hanno “contestualizzato”. Che hanno suggerito – tra le righe o apertamente – che “Israele se l’è cercata”. Come se esistesse una provocazione possibile per giustificare lo stupro di gruppo o l’uccisione di un neonato.

L’antisionismo moderno non è più solo un’opinione. È diventato l’alibi perfetto per l’antisemitismo. Chi odia Israele non perché sbaglia, ma perché esiste. Chi riconosce diritti a ogni popolo, ma li nega agli ebrei. Chi giustifica il terrorismo quando colpisce Tel Aviv. Chi condanna i morti solo da un lato. Tutti costoro non stanno difendendo la giustizia. Stanno riscrivendo l’odio. Con parole nuove, ma con lo stesso veleno di sempre.