La città si è trasferita sui terrazzi, l’emergenza Covid come in un film

La città è salita, meglio, si è trasferita sui terrazzi condominiali. Sembrerebbe una citazione del più celebre quadro futurista di Umberto Boccioni (La città che sale, 1910), in realtà, i suoi residenti, sono letteralmente andati su – a piedi o in ascensore affrontando maniglie e pulsanti previo l’uso dei guanti – per raggiungere un luogo in cima al quale, sollevando lo sguardo, compare, sia detto in modo elegiaco, il coperchio azzurro del cielo. Il terrazzo condominiale altrimenti punteggiato da antenne e parabole, un paesaggio urbano ed edilizio che Fellini mostrava come minaccia all’antico incanto urbano in uno dei suoi ultimi film.

Vanno rammentati ancora i fili per stendere il bucato, almeno per chi volesse, portandosi dietro il mastello ricolmo di indumenti zuppi, portarli fin lassù. Nell’impossibilità concreta e certificata di “scendere” in strada, cioè praticare il quotidiano cittadino nelle sue forme abituali, doverosamente lavorative e perfino soavemente dedicate alla ricreazione, il mondo abitato si è come trasferito in un luogo, un’area, uno spiazzo sopraelevato dove, un tempo, era presente un vano attiguo adibito a lavatoio, così ancora negli anni Sessanta, prima che le lavatrici si mostrassero, golem bianchi candidi (anzi, “Candy”) del progresso raggiunto, in ogni casa, un’apparizione mariana o forse come il monolito di 2001 odissea nello spazio.

I terrazzi condominiali, un tempo, utilizzati nel migliore dei casi come stenditoio sono ora degni di «fiumi azzurri e colline e praterie dove corrono dolcissime le mie malinconie», canzone che, in certe ore, non è escluso che rimbombi tra i palazzi in omaggio a medici e infermieri altrove all’opera. Un’immagine cinematografica ulteriore? Proprio in un posto simile si ritrovano Marcello Mastroianni e Sophia Loren in Una giornata particolare di Ettore Scola, un dialogo amoroso impossibile tra lenzuola stese, in cima al “Palazzo Federici” di viale XXI aprile, a Roma, progettato nel 1931 dall’architetto razionalista Mario De Renzi.

Ovviamente, non tutti i terrazzi possono essere d’autore, comunque altrettanto ambiti anche quelli delle ordinarie palazzine, le circostanze estreme attuali lo impongono. Così, al di là delle già menzionate parabole e antenne, oggetto di congressi condominiali ogniqualvolta dovesse presentarsi un’infiltrazione con relativa disfida tra millesimi, con l’arrivo della pandemia da Covid-19, gli spazi altrimenti desertici sono diventati la città sopraelevata, di più, cosmodromi. Abilitati, utilizzati, occupati, soprattutto nelle prime ore pomeridiane, per prendere il sole, far giocare i bambini, leggere, studiare portando con sé un tavolino da campeggio, fare esercizio fisico, e ancora illudersi che si possa in questo modo avere a portata di sguardo la primavera improvvisa, altrimenti inavvicinabile, come direbbe Pasolini, laggiù il Gianicolo «verso Villa Pamphili, verde fino al mare: un attico, pieno del sole antico e sempre crudelmente nuovo di Roma; costruirei sulla terrazza, una vetrata…».

Roma, da questo punto di vista, perdonerete la concessione filmica ulteriore, è un’eco visiva di terrazzi pronti a comparire fin dall’età dell’oro del cinema, c’è l’inizio della Dolce vita, quando un elicottero tenendo sospesa la statua di un Cristo Redentore sorvola terrazze e attici dell’Eur. O ancora, primo fra tutti, il terrazzo scalcinato de I soliti ignoti dove Totò fa lezioni di apertura de “la comare”, sotto il cielo di Casal Bertone, quartiere popolare dell’Urbe. Oppure Nino Manfredi che in Io la conoscevo bene, affacciandosi sullo scampanio pronuncia che si tratti della «pubblicità della Chiesa, un’idea gajarda che dura da 2000 anni!». In questi giorni, Carla, mia figlia, per restare nel privato, sale su, e, seduta per terra, legge un romanzo fantastico, Macunaíma di Mário de Andrade: oppone la fantasia alla quarantena.

Anni fa, trovandomi, una sera, nei pressi di Borgo, dov’è San Pietro, mi sono accorto di una successione di terrazzi che raccontavano una città di antiche e nuove superfetazioni, un popolo che in piena notte si muoveva formicolante, poveri espulsi dalle loro abitazioni storiche avevano trovato spazio nei solai di un tempo. Bene, sembra adesso che l’intera città, poveri e ricchi, sia salita lassù per ritrovare la vita, le abitudini, per accamparsi in un luogo altrimenti deserto; perfino la gentilezza è fiorita: salutare i vicini da un terrazzo all’altro, interrotti di tanto in tanto dalla musica che talvolta si riversa nel vuoto.

Ieri era Franco Califano, «L’urtimo amico va via, domani se va a sposà, se gioca la libertà pure lui. Er vecchio gruppo ‘ndò stà, me li so’ persi così, se sò scordati de me, tanto amici e poi… tiè!». Carlo Verdone, greve agente immobiliare, Ray-Ban fumé, in Gallo cedrone, agitandosi con l’aspirante giovane affittuaria in un terrazzo dei nostri, sbreccato e d’infimo affaccio, vanta la grazia di “Padre Dante” e della “modernità”. Idealmente, bello e brutto che sia il panorama, oggi noi siamo tutti lì, e vorremmo avere lui al nostro fianco, basterebbe guardarsi in faccia, scuotere la testa e domandarsi in silenzio quando finirà, quando potremo tornare a livello strada.