La cultura si fa arma: la sfida di oggi è quella di valorizzare gli elementi comuni

In questa delicata situazione internazionale ormai da quasi due anni ogni giorno sentiamo in ogni telegiornale o leggiamo in ogni giornale una sola parola: guerra. La guerra in Ucraina, ora quella in Israele, per non parlare di quelle dimenticate, come lo Yemen. Per noi ragazzi il racconto principale avviene via social. Tutti abbiamo i feed di Instagram, X o Tiktok intasati da video e immagini di sofferenza, dolore, morte. I leader stessi hanno fatto un uso straordinario dei social per raccontare la guerra, primo fra tutti il presidente ucraino Zelensky. Tutto ciò, unito al problema della veridicità e della manipolazione delle informazioni, contribuisce a rappresentare il volto giovane e moderno delle guerre che oggi stiamo vivendo. Se da un lato emerge questo tratto nuovo, dall’altro, molti aspetti rimangono immutati nel tempo. Ovviamente in primis il fatto che la guerra sia sempre causa di povertà e sofferenza, come scriveva Isocrate, già alla metà degli anni cinquanta del IV secolo, in uno dei suoi capolavori “Sulla Pace”. E poi rimane il fatto ovvio che le guerre si fanno sempre attraverso delle armi, che possono però assumere natura diversa, a seconda dei contesti, delle epoche, dell’avanzamento tecnologico. E, a questo proposito, è interessante analizzare come molto spesso anche la cultura possa diventare un’arma; un’arma molto potente e in alcuni casi distruttiva.

Per comprendere la connessione tra guerra e cultura possiamo fare riferimento al pensiero di Samuel Huntington, politologo statunitense nonché consigliere del Presidente Carter e direttore degli Studi strategici e internazionali ad Harvard, e alla sua famosa e dibattuta opera “Lo Scontro delle Civiltà”. In essa l’autore teorizza che il fulcro della storia mondiale è costituito dalle civiltà, ovvero dagli insiemi etnico-culturali in cui è possibile dividere la popolazione del globo. A questo aspetto va aggiunta poi la dimensione dell’identità, intrinsecamente connessa a fattori di nazionalità, di religione e di cultura. Ed è proprio l’identità che ci consente di arrivare all’involuzione bellica dei fenomeni culturali; poiché, secondo Huntington, i conflitti e le guerre trovano origine lungo le cosiddette linee di faglia. Significa che i confini tra una civiltà e l’altra sono più soggetti a conflittualità. Il Nagorno-Karabakh o la Jugoslavia possono costituire validi esempi. Secondo Huntington la dimensione identitaria diventa sempre più capace di influenzare i conflitti anche grazie alla cosiddetta “Rivincita di Dio”, ovvero il ritorno delle religioni in un mondo apparentemente in mano alla logica empirista e tecnologica. Sebbene le tesi di Huntington abbiano suscitato molti dibattiti, si può affermare che siano utili per sondare l’evoluzione delle guerre; arrivando così alla loro attuale natura ibrida.

La guerra culturale è proprio un tipo di guerra ibrida, ed è forse quello che riguarda tutti noi più da vicino. Nella guerra culturale il campo di battaglia sono i nostri pensieri. Se questo sembra provocatorio, proviamo ad osservare la realtà. Chiediamoci, ad esempio, quali simboli e quali valori influenzano il nostro modo di pensare e come differiscono da quelli degli altri; e soffermiamoci sul pensare al nostro modo di concepire la realtà: si tratta di una dimensione che possiamo misurare o siamo noi a costruirla con i nostri preconcetti? Questi sono alcuni dei quesiti che dobbiamo tenere nella mente, in modo da analizzare e comprendere ciò che ci accade. Inoltre, su questa base, si arrivano a notare le strategie operate sul campo di battaglia culturale. Una strategia può consistere nel dipingere un conflitto in modo culturale, quando magari vi sono altri fattori scatenanti, cambiandone di fatto l’interpretazione. Al contrario si potrebbe sfruttare la cultura, o parti di essa, per sedurre altre popolazioni. Così, se la Cina riesce a far passare per “ineguali” trattati imposti da ogni potenza vincitrice o se il cosiddetto “Basic English” diventa lingua mondiale, prendono forma gli usi bellici della cultura. Tornando alla guerra in Ucraina, la possiamo leggere come una guerra culturale: Putin sta cercando di annientare la cultura ucraina. Lo fa con affermazioni mistificatorie sulla storia del paese, ma anche “fisicamente”, con la distruzione del teatro di Mariupol o del museo di storia Locale di Ivankiv o l’Università e l’Accademia di Cultura di Kharkiv solo per citare alcuni esempi. Putin cerca di distruggere così l’identità stessa degli ucraini. Allo stesso modo però noi dobbiamo evitare che si ripetano episodi, accaduti anche nel nostro paese, di guerra contro la cultura russa, il cui patrimonio è straordinario e parte della stessa cultura europea. Per un’analisi più accurata bisogna ricordare come il concetto di cultura sia “fuzzy”, ovvero dai confini non pienamente definiti, e che molto spesso le culture siano “interculture” cioè intrecci di culture diverse e frutto di contaminazioni. Il conflitto avviene quando si cerca di contrapporre le culture, facendo emergere gli elementi diversi e di divisione, e cancellando i punti di contatto.

La cultura e l’identità sono elementi fondanti e fondamentali per una nazione, e di per sé non costituiscono un problema. Lo diventano quando sono indotte, costruite, strumentalizzate e manipolate a fini politici: basti pensare a quanto avvenuto nella colonizzazione belga dell’Africa e la guerra etnica tra Hutu e Tutsi, che ha portato ad un vero e proprio genocidio. La sfida di oggi di fronte alle varie culture che si contrappongono è quella di valorizzare gli elementi comuni e di assumere un atteggiamento di relativismo consapevole e attento, che ammette come ogni cultura abbia un suo valore, ma senza accettare qualsiasi logica culturale. Altrimenti si legittimerebbero in molti casi violenze e ingiustizie. Solo così potremmo tornare far in modo che la cultura non diventi un’arma, bensì uno stimolo alla pace e alla solidarietà. Serve costruire, non dividere.