Caro direttore,
è qualche anno ormai che la compagine governativa israeliana si sta adoperando al meglio affinché Tel Aviv cessi di essere, nel sentire collettivo, un modello di democrazia da emulare e contrapporre ai regimi dell’area da cui è circondata. Una democrazia insomma che sta perdendo colpi. L’evidenza più probante, e sulla quale sarebbe gradito un riscontro se non un confronto, è l’ormai perdurante stato di vessazione in cui i palestinesi di Cisgiordania (o Giudea e Samaria come non casualmente viene ora chiamata dagli israeliani) vengono tenuti dai coloni “occupanti”. Nella circostanza, il vulnus alle regole di uno Stato democratico è doppio.
Il primo, di spessore più blando se vogliamo, riguarda il rispetto di un accordo internazionale, quello siglato nel 1993 ad Oslo, da Rabin per Israele ed Arafat per la OLP, e che sollecita il ritiro progressivo delle forze israeliane dall’area e il diritto palestinese all’autogoverno mediante l’istituenda Autorità Nazionale Palestinese. Nulla di tutto ciò si è verificato, anzi si è avviato un processo esattamente contrario con una progressiva, crescente occupazione della Cisgiordania da parte dei coloni. L’ultima perla, quella di qualche giorno fa, quando il ministro delle Finanze Smotrich ha annunciato il via libera alla costruzione di oltre 3.000 nuovi insediamenti abitativi. Il tutto nell’acquiescente silenzio generale o quasi, domestico e internazionale. Più preoccupante ancora è il copione ormai collaudato con cui la politica di espansione degli insediamenti viene portata a termine. Inizialmente i coloni e le forze di sicurezza israeliane mettono nel mirino un villaggio palestinese e, con il pretesto della sicurezza, espropriano i terreni per consentire la costruzione di infrastrutture funzionali appunto alla sicurezza dell’area.
La reazione palestinese viene considerata come fossero attentati, e di conseguenza partono perquisizioni e arresti dei cosiddetti terroristi, le loro case vengono distrutte, le famiglie evacuate. Spesso terre e bestiame vengono confiscati in modo da espandere ulteriormente le iniziali occupazioni. I reati compiuti dai coloni con l’aiuto dei soldati israeliani sono quindi danneggiamento, furto, rapina, violenza fisica e – in non pochi casi – omicidio. Ma in Cisgiordania questi non sono reati, in quanto i coloni non sono soggetti alle leggi ordinarie ma a quelle militari; di conseguenza non vengono celebrati processi regolari, in loro vece prendono avvio detenzioni illimitate.
Questi i fatti, ogni commento è superfluo. Un’altra questione arenatasi in un binario morto, dirimente, e che chiama direttamente in causa le risposte di una democrazia, è l’inchiesta sui fatti del 7 ottobre. A fine febbraio venivano consegnate all’ufficio del Primo Ministro le risultanze dell’inchiesta sul massacro perpetrato da Hamas. Le carte erano piuttosto corpose, la sola parte aeronautica constava di più di 300 pagine, ricca di ogni dettaglio.
Chi aveva redatto i documenti, evitando accuratamente il minimo accenno alle cause e tanto meno alle responsabilità, disse testualmente: “Sappiamo esattamente cosa è successo ma non perché”. Da allora tutto tace, parrebbe questo un altro nodo che dovrà venire al pettine, e tuttavia i cittadini israeliani non sanno ancora quello cui hanno pieno diritto e che non sembra avere le caratteristiche di un mistero. Anche questa vicenda stimola riflessioni non banali sulla tenuta della struttura istituzionale di Tel Aviv. Da ultimo, limitandosi a una rassegna su tutto il visibile, le numerose proteste. Se da un lato queste sono un fatto rassicurante per chi è abituato alla libertà in tutte le sue declinazioni, dall’altro, rimanendo tutte, o quasi, inascoltate, si pone forse un altro problema. Seicento servitori emeriti dello Stato concordi nel bocciare la politica del governo in un Paese di dieci milioni di persone sono veramente tanti.
Per non parlare dei vertici militari in servizio attivo sempre sul punto di gettare la spugna, o delle molte decine di piloti riservisti che rifiutano di volare, o del Capo dei Servizi Interni licenziato e aggrappato nonostante ciò alla sua sedia, o di scrittori e intellettuali ben conosciuti dalla comunità internazionale in dissenso aperto con i comportamenti del governo. Non sfugge certamente che nelle dinamiche odierne la componente religiosa ultra ortodossa abbia un ruolo di primo piano e che pertanto, per vari motivi, gli equilibri politici potrebbero addirittura accentuarsi a loro favore. Proprio per questo la Democrazia dovrebbe battere un colpo e spurgarsi dalle impurità che la stanno inquinando, liberando al contempo l’unico vero ostaggio dell’area: il premier Benjamin Netanyahu.
P.S. Auspico che il mio passato, in tutto ciò che ho detto e fatto, fin da quando giovane Tenente Pilota nel 1967 chiesi di andare a combattere al fianco di Israele, mi tenga al riparo dalla sconcia pratica di etichettatura che non risparmia ormai nessuno. Sono e resto un amico del popolo di Israele e proprio per questo avverto il dovere di non far mancare il mio modesto ma sincero avviso su quanto sta accadendo.
