Esteri
La Germania non ha mai dimenticato perché la memoria è un dovere morale: il ricordo della Shoah non è una prassi di facciata
Il Paese ha saputo trasformare il proprio passato in consapevolezza collettiva e impegno civile In un’Europa smarrita
Le prime immagini del 7 ottobre le ho viste su Telegram, quasi in diretta, senza filtri né contesto. Erano riprese dagli stessi terroristi: uomini armati che sparavano su tutto e tutti, ambulanze comprese. Poi l’immagine che non riesco a cancellare: il corpo inerte di Shani Louk, trascinato su una jeep verso Gaza, tra sputi e grida di giubilo, persino da parte dei bambini. Non era solo violenza: era la celebrazione della violenza. In quel momento ho capito che non stavamo assistendo soltanto a un massacro, ma a una frattura profonda nella percezione del mondo.
In Germania, dove vivo, le reazioni sono state immediate, istintive, sincere. A Brema, la mia città, ci siamo ritrovati nella piazza centrale, senza alcun coordinamento. Non credo ci fossero molti ebrei tra noi, soprattutto c’erano cittadini comuni con le lacrime agli occhi. Il pensiero correva alle ragazze, ai bambini, alle famiglie massacrate, ai rapiti, alla vulnerabilità degli ebrei che, in Germania, non è mai un tema astratto. Qualcuno sventolava la bandiera d’Israele, gli anziani piangevano. Da quel giorno, ogni settimana, ci si è raccolti in silenzio. Per mesi. Per due anni.
È lì che comincia il “mio” 7 ottobre. In Germania conduco la mia ricerca scientifica, ma insegno in Italia, in un’università prestigiosa. Ogni volta che prendo l’aereo, percorro mille chilometri che misurano non solo la distanza geografica, ma anche quella emotiva. Da un lato, la compassione. Dall’altro, il disprezzo. A Torino ritrovo muri coperti di scritte “From the river to the sea”, stelle di David uncinate, incontro colleghi, non tutti, che si scambiano petizioni contro Israele e studenti che chiedono il boicottaggio. Si dicono antisionisti, contro Netanyahu. Ma provate a chiedere chi governava Israele prima di Bibi. Non lo sanno. Come non sanno a quale fiume e a quale mare si riferisca lo slogan. E l’angoscia, quando anche al bar senti gli anziani che parlano di “ebrei assassini”, si trasforma in attacchi di panico. Il volo che mi riporta in Germania è sempre liberatorio.
Ricordo ancora con emozione e tormento il momento in cui sono stati resi noti i nomi degli ostaggi. Da quell’elenco era emerso quello di Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, cittadino americano e israeliano, rapito al festival Supernova e poi ucciso nell’agosto 2024 da Hamas. Hersh era tifoso del Werder Bremen: a Brema era di casa. Il 4 novembre 2023, a un mese dal suo rapimento, gli ultras della squadra si sono ritrovati in una piazza gelida con i lumini in mano, per leggere una lettera della madre e recitare preghiere. Avete mai visto centinaia di ultras riuniti per pregare? Credetemi, è una sensazione forte, che ti fa credere nel futuro. Lo stadio ha esposto una gigantografia di Hersh e ogni domenica la curva ha alzato striscioni, in tedesco e in ebraico, per chiedere la liberazione degli ostaggi.
Certo, anche in Germania ci sono episodi di antisemitismo in crescita, soprattutto a Berlino e Amburgo, dove la presenza mediorientale è forte. Tra la gente comune, però, non ho mai percepito sospetti di “colpevolezza collettiva”. Piuttosto, una consapevolezza: quella di avere un dovere speciale. Non lasciare soli gli ebrei. Con ciò non voglio dire che in Italia sia mancata l’indignazione. Ma appena è iniziata la risposta israeliana, si è aperto un altro fronte: quello dell’antisemitismo, esplicito o mascherato. Cartelli con il divieto d’ingresso agli israeliani, aggressioni in autogrill, attacchi fuori da ristoranti kosher, e nelle università. Un altro mondo, che non riconosco più come mio.
Italia e Germania hanno reagito diversamente al 7 ottobre, non per via delle loro storie, ma per come hanno scelto di raccontarle. In Germania, la Shoah non è solo una tragedia ricordata: è una colpa nazionale che struttura la vita pubblica. Ogni discorso politico o culturale deve fare i conti con quell’eredità. È una religione civile della memoria. Ed è questa religione che ha portato migliaia di persone a manifestare, il giorno dopo il massacro, per proteggere gli ebrei. In Italia, la memoria della Shoah non ha la stessa centralità. Ci si è raccontati per decenni la favola degli “italiani, brava gente”, della discriminazione sì, ma non della persecuzione feroce. È un racconto che alleggerisce la coscienza collettiva, ma che oggi presenta il conto. Davanti a un trauma come il 7 ottobre, riemerge un antisemitismo latente che non abbiamo saputo combattere. Spuntano vecchi stereotipi – Gesù palestinese, ebrei cospiratori – e nuove radicalizzazioni, soprattutto nelle università, dove la rabbia e l’inedia giovanile si mescolano alle passioni politiche.
Il 7 ottobre non è stato solo un trauma per Israele. È stato un test europeo. Una cartina di tornasole che ha rivelato la profondità – o la fragilità – delle nostre culture della memoria. È stato anche un paradosso personale: sentirmi a casa in un Paese straniero e straniera in patria. Il 7 ottobre è oggi, è domani, sarà sempre. E lo spazio aereo tra Brema e Torino non colmerà mai la distanza emotiva che ha tracciato nel mio cuore due geografie opposte.
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