Per la Bibbia la giustizia penale cura le relazioni ferite e il suo significato a livello giuridico rimanda ad un aspetto di doverosità verso gli altri e di esigibilità verso se stessi. Il suo significato è continuamente provocato da una domanda morale: «Chi è l’altro per me?» e dal senso ebraico di sedaqah, la giustizia intesa come solidarietà in relazione alla comunità di appartenenza. La Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Nella Bibbia la fratellanza non è data biologicamente, è un punto di arrivo, non ha nulla a che vedere con i legami di sangue. L’uomo è “per natura” fratricida, mentre “per cultura” può diventare prossimo e giusto. Caino cosa risponde a Dio quando gli chiede “Dov’è tuo fratello”? Gli dice: “Sono forse io il custode di mio fratello”. Tuttavia, scrive Levinas, «nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico alla mia responsabilità e non sono più un soggetto morale».
Proprio grazie al suo realismo, il modello di giustizia penale di Israele è servito per regolare nella storia il significato della pena e della sofferenza nei rapporti fra gruppi e Stati, tribù e nazioni che si impegnano a ristabilire giustizia e riconoscimento reciproco. La stessa legge del taglione, spesso utilizzata dai giustizialisti per giustificare la durezza delle pene, non include una risposta vendicativa, ma esige una proporzione tra il male provocato e la pena inferta. Ma c’è di più. Sfogliando la Bibbia non emerge un’idea astratta di giustizia, ma un’esperienza concreta di uomo “giusto”. Il processo a Gesù è emblematico. Il popolo sceglie di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si era chiesto “ma che cosa ha fatto di male Costui?”, ma poi si lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri, il giusto paga per tutti.
La Chiesa non si stanca di denunciare questa dinamica. Nel 2014 anche Francesco, parlando di populismo penale, ha chiesto alla cultura della giustizia di «non cercare capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, [altrimenti c’è] la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste».
La morale biblica concepisce la giustizia penale secondo quattro princìpi:
1) “Non giudicare ma rieducare il colpevole”. Caino, l’archetipo dell’assassino, non viene abbandonato a se stesso, non è escluso dalla premura di Jhwh. La tsedāqāh di Jhwh prevede per Caino un lungo cammino di espiazione e di riabilitazione dopo la cacciata dal giardino.
2) La responsabilità nell’esecuzione penale è oggettiva. La vittima deve ritrovare ciò che le è stato tolto: o il colpevole assume la propria responsabilità risarcendo del danno la vittima o i suoi familiari, oppure se ne fa carico l’intera comunità. Per la Bibbia la responsabilità è oggettiva, nel diritto romano la responsabilità è soggettiva e individuale.
3) La terra macchiata dal sangue deve essere bonificata altrimenti non darà più frutto per nessuno, nemmeno per le vittime o gli estranei a quell’azione violenta, perché il luogo della relazione e della reciprocità.
4) “Nella colpa c’è già parte della pena”. Lo ha ribadito nel 1987 il cardinal C.M. Martini parlando ai detenuti del carcere di San Vittore: «Nella colpa c’è quindi insita una sofferenza, una umiliazione e una esclusione dalla comunione pacifica degli uomini». La funzione della pena è trasformare la colpa in responsabilità per riabilitare a un nuovo inizio. Si punisce severamente il male fatto, ma si salva chi lo ha fatto.
Ci si divide tra giustizialisti – che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta – e permissivisti che minimizzano l’accaduto. Tutto questo però cambia quando la giustizia tocca la carne e gli affetti. In quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Con un tasso di recidiva che si aggira intorno al 68% e una spesa di solo 95 centesimi al giorno per la rieducazione dei detenuti il modello di riabilitazione previsto dall’art. 27 della Costituzione non funziona. Cosa significa per uno Stato come l’Italia con la sua cultura giuridica il filmino postato dal ministro Guardasigilli Bonafede sull’arrivo di Battisti all’aeroporto? Un video di tre minuti accompagnato da una musica trionfale con un montaggio da trailer cinematografico per l’arrivo di un detenuto. È solo un esempio che indica come il modello vigente di «giustizia retributiva» è arrivato al suo massimo grado di positivizzazione.
È scomparso persino il nome “grazia” al Ministero di Giustizia. In quella parola si rinchiudeva un distillato di civiltà. Siamo arrivati a difenderci dal processo e non nel processo, per aver smarrito il senso di ciò che è giusto in sé. La giustizia biblica in questi ultimi anni ha però ispirato il modello di giustizia riparativa, un «prodotto culturale» che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. L’antropologia della pena viene stabilita rispondendo a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito?
Il percorso si articola in alcuni fondamentali passaggi: 1. Il riconoscimento del reo della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società. 2. L’incontro con la vittima. 3. L’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore. 4. L’elaborazione della vittima della propria esperienza di dolore. 5. L’individuazione della riparazione che può essere la ricomposizione di un oggetto o di una relazione. A chiederlo è la Raccomandazione n. 19/1999 del Consiglio d’Europa: va fatta crescere la cultura della mediazione e formati i mediatori penali.
Tecnicamente la giustizia riparativa non è negoziazione; non è risarcimento; non è prestazione volontaria sociale nel carcere e fuori; non è diventare collaboratori di giustizia; non è il premio della messa alla prova o dell’applicazione delle misure alternative ecc. È un modello culturale che aiuta il modello classico ma capovolge il significato di giustizia.
Il salto culturale è quello di far emergere la verità e passare dall’intimidazione della pena alla riabilitazione del detenuto che incontra il dolore della vittima, prende coscienza del male fatto e concretamente ripristina un oggetto o una relazione rotta o distrutta. Riemerge culturalmente il modello biblico, tra la mišpat (la giustizia classica) e il rîb (lite bilaterale), con cui iniziano i libri di Isaia, Osea e Geremia e che la Scrittura presenta come integrativi al sistema penale e alle sue sanzioni. La dinamica è triplice: l’accusa, la risposta dell’accusato e il perdono che permette una vera riabilitazione/riparazione. Lo testimoniano esempi silenziosi e luminosi. Anna Laura Braghetti, che freddò con 11 colpi Vittorio Bachelet, ha ricordato l’incontro avuto con suo figlio: «Ci siamo riconosciuti. Mi ha parlato e mi ha detto che bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato. Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene».
Daniela Marcone, responsabile nazionale Libera Memoria, a cui è stato ammazzato il padre, ha spiegato così la riparazione: «Ogni volta che viene commesso un crimine, questo coinvolge direttamente il reo e la vittima, ma in realtà si crea uno strappo anche ai danni della comunità in cui reo e vittima vivono: questo strappo occorre ripararlo». Lina Evangelista, moglie di un poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar nel 1980, ha affermato: «Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso»; e, dopo aver incontrato gli assassini del marito, confida: «I mostri si sono rivelati tutt’altro». Agnese Moro ha scritto agli assassini del padre dopo aver riletto le terribili pagine dell’autopsia che parlano della sua agonia: «Dopo questa lettura — ha raccontato — sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi, come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi».
La giustizia (biblica) va costruita, è una scelta culturale. La scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, la società civile, possono investire e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. La politica ha una responsabilità in più, quella della “prevenzione primaria” che ridurrebbe i reati, come per esempio perseguire i paradisi fiscali, regolare gli appalti, contrastare le coltivazioni della droga, rinforzare l’etica della sessualità per contrastare gli abusi ecc.
Quando gli Usa negli anni Novanta buttarono via le chiavi delle loro carceri i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni. I posti liberi di coloro che delinquevano vennero occupati da altri. È notizia di questi giorni il caso di James Dailey, 73 anni, trenta dei quali trascorsi in cella in Florida. Un altro uomo ha confessato l’omicidio di cui è accusato ma le autorità rifiutano di riaprire il caso e lui rischia la pena di morte. È questo un esempio anti-biblico.
Nel tempo dell’eclissi della giustizia varrebbe la pena rileggere l’opera del gesuita E. Wiesnet Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita sul rapporto fra cristianesimo e pena. L’opera è dedicata a un ragazzo di 19 anni a cui, dopo tre anni di detenzione, è negata ogni riconciliazione dagli abitanti del suo villaggio. Si impicca per disperazione dopo sei settimane. Nella sua lettera di addio lascia scritto: «Perché gli uomini non perdonano mai!».
