La “Guerra” di Céline, un assaggio del suo mondo senz’anima

Dopo il grande successo ottenuto pochi mesi fa alla sua uscita, ora Adelphi rilancia in libreria questo piccolo romanzo di Louis-Ferdinand Céline, “Guerra”, probabilmente scritto nel 1934, ritrovato dopo decenni e varie peripezie. Come si spiega il successo di questo autore odioso, volgare, antisemita fino alla mai rinnegata adesione al nazismo? Cosa c’è nella sua scrittura scarnificata e obliqua che a sessant’anni dalla morte ancora cattura tanti lettori? Forse c’è bisogno di grande letteratura in questo tempo superficiale nel quale ogni emozione si brucia in un attimo senza fine, direbbe Paoli; e quindi sì, va bene anche Céline-il-maledetto, e ben vengano alla luce i suoi scritti rimasti in qualche soffitta e adesso miracolosamente tornati tra noi (sarà Adelphi a pubblicare ciò che è finora restato nell’ombra?) come se nella miniera céliniana fosse stata rinvenuta una nuova vena d’oro.

Di “Guerra” abbiamo già parlato su queste pagine, ma è utile tornarci su perché si tratta di uno dei casi letterari più importanti degli ultimi tempi. Grazie alla non facile impresa di Ottavio Fatica che lo ha tradotto, “Guerra” è un distillato di ciò che il lettore céliniano ha già abbondantemente affrontato con la grande opera di Céline, il “Voyage au bout de la nuit” (e per chi non conosce questo capolavoro, questa è un’ottima tappa di avvicinamento), raccontando «lo scoppio della guerra nella testa» del protagonista Ferdinand (lo stesso nome dell’eroe del Voyage) durante quella Prima guerra mondiale che vide a un certo punto lo stesso Céline in trincea, il 27 ottobre 1914, ferito gravemente – e del dolore alla testa si lamentò per tutta la vita.

E tutto, nella letteratura céliniana, si svolge appunto dentro la testa, e dentro le viscere. Céline, quest’uomo odioso, volgare, antisemita fino all’approdo al nazismo, è un gigante del Novecento che ha distrutto la memoria («Era una bolgia, la memoria»), il contrario di Proust che passò tutta la vita a tentare di ricostruirla: «È una carogna il passato, sempre ubriaco di smemoratezza, un vecchio marpione che ha sputato su tutte le tue storie». “Guerra” è un non-racconto, come in Beckett, ma è senza dubbio grande letteratura. Solo in qualche passaggio egli evoca la grande prosa francese: «Lontano, lontano c’erano sempre il sole e gli alberi, tra poco arrivava l’estate (…) È fragile il sole del Nord. A sinistra scorreva il canale addormentato sotto i pioppi pieni di vento. Se ne andava a mormorare quelle cose laggiù fino alle colline e poi filava dritto fino al cielo che lo proseguiva in azzurro prima delle più grandi delle tre ciminiere sulla linea dell’orizzonte».

Ma è solo una brevissima pausa bucolica nell’inferno di sangue, odio, corpi e nefandezze, tutto scarnificato nelle miniature di una scrittura rapidissima ed essenzialmente senza misericordia e senza sentimento con, forse, un’apertura sul futuro quando alla fine Ferdinand lascia la Francia per l’Inghilterra. Però tutto tende a confluire nel mistero, nella mancanza di un filo, nella morte della ragione. Che per Céline in fondo non è mai esistita davvero, su questa terra infame.