Il ministro economico Giancarlo Giorgetti ieri pomeriggio è finalmente arrivato in Svezia dove ha raggiunto i 27 colleghi economici europei che lo aspettavano da giovedì. “Scusate, mi hanno bocciato il Def ma ora è tutto a posto” ha dovuto ammettere il titolare del Mef che alla riunione dell’Eurogruppo e poi dell’Ecofin tra oggi e domani deve sbrigliare dossier delicati e decisivi come le nuove regole del patto di stabilità Ue che contengono la “fregatura”, per l’Italia, che anche gli investimenti vengono computati nel debito. Come il Pnrr che anche se non è esattamente un suo dossier (il titolare è Fitto, per carità) entra come partita di scambio tanto con le nuove regole di bilancio che con la ratifica del Mes, altra rogna incombente perché manca solo l’Italia e tutto questo comincia ad infastidire non poco gli altri paesi Ue.
In realtà Giorgetti è partito furioso e affatto tranquillo. Per il suo ruolo nel governo, nel senso che tutta questa vicenda gli puzza e non poco. Per la credibilità dell’Italia sui mercati nonostante i buoni dati sulla crescita comunicati ieri dall’Istat (+0,5 nel primo trimestre contro lo 0,1 previsto). “I colleghi non sanno o non si rendono conto” ha sibilato velenoso giovedì mentre lasciava l’aula e cercava una soluzione. Arrivata tra giovedì sera con il nuovo Cdm e ieri mattina con l’aggiunta di sette parole nella relazione del Def. Con questa modifica ieri il Documento e relativo scostamento di bilancio sono stati approvati con 221 voti alla Camera (giovedì sierano fermati a 195 con maggioranza assoluta a 201) e 112 al Senato, due in più del giorno prima (maggioranza assoluta 101). Il dibattito generale, nell’una e nell’altra Camera, è diventato in fretta una sentina di accuse reciproche.
Le opposizioni hanno accusato di incompetenza la maggioranza deridendo lo slogan della campagna elettorale “siamo pronti” come uno dei più funesti di sempre. La maggioranza ha accusato le opposizioni di essere “irresponsabili” visto che il Def, come la Nadef, sono voti tecnici su cui è vietato fare politica e consumare vendette. Lasciando intendere che tutto sommato si aspettavano un aiutino delle opposizioni. Certo, la maggioranza ha tentato anche di chiedere scusa all’Italia e alla premier Meloni promettendo: “Mai più un scivolone del genere”. Maurizio Lupi di Noi moderati ha voluto cogliere un messaggio positivo in tutto questo cinema: “La centralità del Parlamento” che però alla prima e attesa prova ha fatto acqua da tutte le parti. I capogruppo Molinari (Lega) e Foti (Fdi) hanno dato la colpa “al forsennato taglio dei Parlamentari a cui però non è seguito un adeguamento dei quorum”. Qualcuno, della maggioranza, sempre a margine ha lasciato intendere che “insomma, con il taglio dei seggi e i banchi vuoti nelle ultime due file è anche più difficile avere il colpo d’occhio giusto sulle presenze”. Pronta la replica del terzopolista Roberto Giachetti: “La matematica non è un’opinione o, come disse Totò ‘la somma fa il totale’. La maggioranza assoluta, con il taglio dei parlamentari, non c’entra nulla.
La maggioranza assoluta è in funzione del numero dei parlamentari, in percentuale: prima era di 316, ora di 201”. Il colpo d’occhio “giusto”, ovverosia il dubbio che in aula alla Camera non ci fossero i numeri sufficienti per approvare il Def a maggioranza assoluta, lo ha avuto invece il ministro Giorgetti. Il titolare del Mef giovedì osservava l’aula e non gli tornavano quei banchi vuoti. Ha condiviso il suo timore con una deputata di Fratelli d’Italia: “Sicuri che abbiamo i numeri?” le ha chiesto via whatsapp. La deputata non ha letto il messaggio e quando il vicepresidente Rampelli (FdI) che presiedeva l’aula ha chiamato la votazione elettronica era troppo tardi per inventare una scusa e prendere tempo. Quello necessario per fare qualche telefonata e richiamare in aula almeno sei assenti. Si tratta dell’abc della prassi parlamentare: in ogni gruppo ci dovrebbe essere chi conta i presenti, chi simula il voto, i butta-dentro che li vanno a richiamare alla buvette e persino nei bagni. Abbiamo visto scene di ogni tipo a questo proposito. Giovedì non è successo nulla di tutto questo.
E allora, insipienti, arroganti o superficiali. Oppure c’è anche dell’altro? Raffaella Paita, capogruppo del Terzo Polo al Senato, ieri in aula ha messo in fila qualche indizio e alla fine, tirata la riga, non resta “solo” il grave incidente di percorso. “C’è anche qualcosa di politico nell’incapacità dimostrata. C’è una crescente insoddisfazione, un imbarazzo, perché la maggioranza complessa, rissosa, non è in grado di mantenere nessuna delle promesse elettorali. Un Def insufficiente, senza visione e senza soluzioni strutturali comincia a stare stretto. I partiti di governo cominciano a rendersi conto che con Draghi il paese cresceva, con voi sta fermo, immobile”. Un “problema politico”. E questioni “interne ai partiti”. Dietro questo due locuzioni, che la premier Meloni ha subito voluto allontanare, ci sono tutti i mal di pancia interni alla maggioranza: la Lega contro lo strapotere di Meloni; Forza Italia che cerca di sopravvivere con dignità; la Lega che osserva con sospetto l’ultimo maquillage governista degli azzurri. Tutti preoccupati per il rigorismo draghiano di Giorgetti che giorno dopo giorno tanto viene apprezzato dai mercati e tanto irrita la sua stessa maggioranza che non potrà realizzare nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale e anche dopo. Dalle pensioni al Ponte sullo Stretto, la dottrina Giorgetti è l’antitesi dei vari proclami.
Gli indizi del malcontento sono vari. Giorgetti è della Lega e il suo capogruppo al Senato, fedelissimo di Salvini, Massimiliano Romeo giovedì aveva inserito nella risoluzione votata e approvata tre punti non concordati con il ministro. Il Def stesso, con i 3,4 miliardi destinati al taglio del cuneo fiscale, chiude le porte – almeno per ora – a riforme e aumenti di pensioni. Così come nella delega fiscale che dovrà riformare il fisco è evidente come sia saltata un’altra leggenda leghista: la flat tax. Quindici assenti nella Lega, quattordici in Forza Italia, sette di Fratelli d’Italia. Tra loro deputati che sono stati visti in aula e in Transatlantico fino alle tre, quattro del pomeriggio. E alle 17 erano assenti. Gli avvertimenti sono stati solo per Giorgetti o anche per Meloni? O per entrambi? Qui la faccenda si complica. Sicuramente il ministro da mesi chiede alla premier di ratificare il Mes (che non vuol dire attivarlo) “per dare almeno un segnale all’Europa”. Un segnale che poi può essere speso anche in altre partite, la Stabilità e il Pnrr, tanto per dirne due. Più in generale ci stiamo giocando l’affidabilità conquistata a fatica con il governo Draghi. D’altro canto non ha fatto piacere a Giorgetti e alla potente e competente struttura della Ragioneria dello Stato vedersi scippare tutta la governance del Pnrr per portarla a Chigi e consegnarla nelle mani del ministro Fitto. Così come non fu gradevole per Giorgetti dover rinunciare al Direttore del Tesoro Alessandro Rivera. La premier volle la sua testa e il ministro dovette obbedire.
Come si vede, è un intreccio complesso di progetti disattesi e diktat perentori che indeboliscono il ministero ma anche palazzo Chigi. Se è stato imbarazzante per Giorgetti dover comunicare ai colleghi “il ritardo perché non siamo riusciti a votare il Def”, ancora di più lo è stato per Giorgia Meloni andare a Londra per rassicurare i mercati e sul più bello, uscita da Downing street, dover dire: “Non ho trovato i numeri per il Def”.
