La lezione dei Pirqè Avot: il mito di Aronne contro il giustizialismo

Gli israeliti, si racconta, piansero Aronne per ben trenta giorni, assai più di quanto piansero Mosè. Perché? Ora ve lo dico ma affrontiamo una questione che torna continuamente nel nostro dibattito pubblico. La controversia tra garantismo e giustizialismo ha una storia antica, che si svolge perlopiù fuori dalle aule delle facoltà di giurisprudenza e che da sempre si intreccia con il senso comune, con la sensibilità elementare delle persone. Onestamente, pur non aderendo a tutte le battaglie garantiste del direttore di questo giornale, sento di essere un simpatizzante garantista. Per una semplice ragione. Penso con Sciascia che il peccato più grave sia quello di spaventare qualcuno, di minacciarlo, di intimidirlo (sia pure a fin di bene).

La paura per Spinoza è il principale strumento di dominio. Dunque occorre tutelare al massimo l’individuo contro la “professionale” inclinazione dei magistrati all’arbitrio, contro i molti e ricorrenti abusi dei poteri pubblici. E se l’individuo è, accidentalmente, un “potente”, nel momento in cui viene incriminato diventa anche lui, per un attimo, un cittadino inerme, e va tutelato, certo nella misura della legge, benché questo a volte ci rivolti lo stomaco e ci sembri solo aggiungere privilegi a privilegi (comunque: garantismo non significa impunità). Accennavo a una storia antica. Da sempre l’umanità diffida di chi emette giudizi e di chi commina delle pene. Come mai? Si tratta di un istinto criminale? Di una vocazione cosmica all’illegalità? Rivolgiamoci a un testo straordinario della tradizione ebraica, quasi sconosciuto nel nostro paese, i Pirqè Avot, o Massime dei Padri (ne ho acquistato una copia in Rete, edita dalla Comunità di Bose), uno dei sessanta trattati della Mishnà, che nei primi secoli dopo Cristo – dopo la distruzione del Tempio, 70 d. C. – mise per iscritto la tradizione religiosa orale. Un trattato che ha esclusivamente un contenuto morale, e che si potrebbe utilmente affiancare alla lettura del Vangelo secondo Matteo (ma anche i Vangeli chi li legge più?).

Veniamo all’interrogativo di partenza. Come mai gli ebrei si piansero Aronne per ben trenta giorni, più di quanto piansero Mosè? Perché Mosè era un giudice severo mentre “Aronne non ha mai detto di un uomo o una donna che fossero colpevoli”. Qui è come se si intuisse l’origine (perversa, colpevole) della giustizia dalla vendetta. La conosceva bene Dante che nel Paradiso (cielo di Mercurio) fa dire all’imperatore legislatore Giustiniano: “ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch’i dico, / gloria di far vendetta a la sua ira”. Al tempo stesso il Pirqè indica l’esistenza di una dimensione superiore a quella della giustizia stessa, del giudicare gli altri (si pensi sempre al Vangelo). In seguito nel trattato si dirà di “non giudicare il tuo prossimo finché non ti sei messo al posto suo”. Hillel, grande saggio rabbino, raccomanda di essere umili come lo era Aronne. Inoltre: anche il più grande dei sapienti deve scegliersi un maestro, magari meno sapiente di lui, poiché nessuno “può vedere dentro di sé come ci vede un altro”. Da meditare, in un’epoca come la nostra che svaluta il maestro, perché tanto “ uno vale uno”.

Solo per dare una idea della forza “eversiva” di un testo come i Pirqè Avot, che in ogni famiglia ebraica americana era messo in soggiorno, e che veniva letto ad alta voce per sei sabati tra Pasqua ebraica e Pentecoste, vorrei sottolineare come si risolva tutto in una critica della grandezza (in qualsiasi forma questa grandezza si esprima). Non si loda l’eroismo né il coraggio, piuttosto la mitezza e direi una saggia passività. E anzi la virtù non ha bisogno di speciali qualità eroiche. Alla base di tutto c’è la fede che questo mondo sia ordinato per il nostro bene. Dunque l’essere umano deve non tanto conquistarvi il suo posto ma adattarsi a quello che riceve in sorte. Passività non come apatia o inerzia ma solo riconoscimento del limite. Ognuno deve fare la sua parte, indifferente all’esito, che non è mai garantito. In questa celebrazione della semplicità biologica della vita – che non ha bisogno di riscattarsi con qualcosa – la preoccupazione dei rabbini è diretta contro gli gnostici, contro l’idea che questo nostro è un regno di tenebra. Per loro l’uomo non viene da un luogo di luce ma da un luogo di tenebra (di polvere, vermi e marciume) e a quello dovrà tornare: veniamo dalle tenebre e soltanto questa vita è invece una parentesi di luce.

A un certo punto leggiamo poi che, come disse Salomone, “chi disprezza il suo prossimo è privo di senno, perché non riflette sul fatto che la ruota del destino gira costantemente nel mondo”. Anche se è certamente abusivo usare questo trattato di duemila anni fa per le nostre polemiche politiche a me sembra che la sentenza di Salone sia una indiretta risposta a ogni ideologia “di destra”, che celebra i forti e vincenti oltremisura e sotto sotto disprezza i perdenti e i deboli, quelli che restano indietro (per colpa loro, come si ritiene generalmente!). Il punto è che siamo tutti vincenti e perdenti, o forti e deboli, in momenti e contesti diversi. Arriviamo infine al passo più famoso del Pirqè grazie a Primo Levi. “Se non son io per me chi è per me? E quand’anche io fossi per me, che cosa sono io? E se non ora quando?”.

Un invito alla responsabilità individuale e concreta, a non rinviare a qualche improbabile paradiso in terra da realizzare nel futuro (come è accaduto alla mia generazione); e subito prima il riconoscimento della pochezza del soggetto, del suo essere un niente, fuori di ogni relazione. In genere nei Pirqè Avot si insiste sul valore della timidezza, dell’umiltà, dell’ascolto, del non giudicare (torna di nuovo in mente il Francesco di Dante, che volle farsi “pusillo”, piccolo, per fare esistere di più tutti gli altri) e si diffida della grandezza, del volersi gonfiare, del diventare potenti, della smania di distinguersi per meriti speciali, dell’aspirazione all’eroismo. Accanto ad Antigone bisognerebbe ricordarsi di mettere Aronne – citato dal Pirqè Avot – nel nostro immaginario etico-giuridico.