La mafia indagata da Borsellino non era quella cinematografica del bacio tra Riina e Andreotti: dossier appalti seppellito, il tradimento all’eredità del magistrato

È possibile, forse, solo in Sicilia che la Storia arrivi prima della Verità. Stiamo parlando delle stragi del 1992, e in particolare dell’attentato che ha portato al martirio Paolo Borsellino e la sua scorta il 19 luglio di quell’annus horribilis per la storia della Sicilia e della democrazia in Italia. Parliamo di Storia perché al Centro Pedro Arrupe di Palermo è stato presentato un libro dello scrittore Vincenzo Ceruso, che – come definisce lo storico Marc Bloch – “ha disperatamente cercato”. Il libro “Paolo Borsellino – La toga, la fede, il coraggio”, sulla vita e l’estremo, “normale”, onore, riabilitando la parola, di Borsellino nei suoi ultimi giorni di esistenza terrena. Quella parentesi temporale, personale e familiare, di tremendo sforzo e tensione lavorativa, che va dalla strage di fine maggio a Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, oltre agli agenti della sua scorta, e l’attentato di Via D’Amelio.

Borsellino, in quei 55 giorni, per chi ha avuto la ventura di incontrarlo come chi scrive, portava nello sguardo, nelle rughe della fronte, nella postura del corpo, le stimmate di un uomo, intimamente cristiano senza enfasi, che aveva piena consapevolezza del suo prossimo martirio, come confidò in confessione a Padre Rattoballi: il tritolo per me è già arrivato. E non era una sensazione, una premonizione, ma un fatto, perché Borsellino era un uomo dei fatti, analizzati con assoluta dedizione e preparazione professionale, riscontrati con tremenda pazienza e incasellati. Solo i fatti, non le emozioni delle ipotesi a cui trovare indizi. Per il modo di concepire il ruolo del magistrato di Paolo Borsellino, i fatti, la loro analisi, le possibili concatenazioni precedono le ipotesi. Per questo servono il coraggio e l’onestà intellettuale che solo un’umiltà, scevra da superbia, e dunque cristiana, può dare.

Il libro ci riporta ai fatti, alle indagini che Borsellino intraprese. Sapeva che il tempo era poco; tenacia in quel tempo sospeso tra le due stragi. Quei fatti, quei documenti, quei riscontri, su piste che sapevano di strade provinciali, oscuri antri e riunioni di paese, che lui cercava freneticamente di accumulare, soprattutto per chi sarebbe venuto dopo di lui. La Mafia indagata, osservata, classificata da Paolo Borsellino è una mafia antropologicamente provinciale: non è quella cinematografica visualizzata con il bacio tra Riina e Andreotti di Sorrentino nel Divo. E provinciali sono le strade che questa mafia percorre tra il Belice, terra di terremoti e ricostruzioni, che congiunge le tre province di Palermo, Trapani e Agrigento. Modugno cantava di tre somari e tre briganti sulla strada di Girgenti, e su queste quasi sempre dissestate strade – tra dighe sfatte e rifatte, metanodotti e tubature che perdono appositamente acqua ancora oggi a 33 anni da Via D’Amelio – si trova il bandolo della matassa dei miliardari appalti siciliani pilotati e gestiti dalla Mafia Spa.

Appalti per l’acqua, sempre l’acqua, l’oro blu, il brodo primordiale con cui la Mafia è nata. Gli appalti rendevano più soldi, e con meno rischi, della droga. E sono, usando un cognome perifrasi del dossier appalti, Siino, sempre i soldi il movente della mafia; più del potere è importante “fottersi” i soldi, capovolgendo il luogo comune che “comandare è meglio che fottere”. Il dossier appalti: la pista naturale su cui indagava Borsellino, alla sua morte fu trascurata, dismessa, archiviata. Ci chiediamo dopo 33 anni perché, come se lo chiede l’attuale Procura della Repubblica di Caltanissetta? Chi archiviò le indagini di Borsellino, chi condusse addirittura a processo gli autori di quel dossier? Chi scaricò in un canale di acque reflue l’enorme patrimonio di metodo e fatti, indagini e concatenamenti reali e concreti, fatti di soldi, imprese, professionisti, manager e boss mafiosi, per lanciarsi su teorie fine di mondo contro alcuni politici, come Mannino e altri, guarda caso quelli che erano nel mirino di Cosa Nostra, e carabinieri, come Mori e De Donno?

Il libro di Vincenzo Ceruso, con pazienza e obiettiva ricerca, esamina fatti ormai acclarati senza presunzione indagatrice, perché la storia è analisi e riscontro documentale. E qui si innesca la crasi tra storia scientificamente accertabile e verità giurisdizionale, che dopo quasi 33 anni è ancora, ingiustificatamente, orribilmente, lontana. In Sicilia non amiamo la verità, perché ognuno, ogni testa è tribunale, dice la vulgata popolare, pretende di farsene una sua, di comodo, spesso, o di pervicacia. Perché la verità fa male, i profondi intrecci del familismo isolano tengono spesso insieme vittime e carnefici di vario genere: ciascuno conosce qualcuno, ci ha avuto a che fare. Siamo milioni, ma sembriamo più contigui che intimi, anche se diversi sono complici. L’iperbole, tutta dentro la magistratura e gli apparati siciliani, è che nessuno ha mai indagato sulle tracce, appunti, fascicoli, di Paolo Borsellino.

La verità era – si sta faticosamente scoprendo come l’acqua calda oggi – davanti agli occhi di tutti, al di là del “totem” agenda rossa, che cerchiamo come la pietra filosofale. Il dossier sugli appalti siciliani, ma non solo, le piste che portavano in Toscana e in altri centri di potere economico del Nord, le tracce seguite, con testimoni ancora vivi, ma sottovalutati, in alcuni casi emarginati, in altri addirittura processati, vedi De Donno, ci sono e c’erano tutti. Lo storico, scevro da opportunità di carriera e condizionamenti, li può sapiente rintracciare e collegare; la giurisdizione sembra che non ce la faccia, arranca tra spinte e rinculo, archiviazioni e depistaggi, a volte criminogeni, a volte frutto di insipienza e ottusità. Si vuole non vedere, perché la giustizia vuole assomigliare alla fortuna ed essere bendata, più per incertezza che imparzialità.

Ma nel libro emerge, gigantesco nella sua umile umanità, l’uomo Borsellino. Paolo come, spesso impunemente o inopportunamente, hanno cominciato a chiamarlo, e a volte tradirlo, in tanti. E lui era uomo e magistrato di altissima capacità, che faceva coincidere verità e fatti, che poi hanno concretizzato la Storia di questa terra, la Sicilia, che la verità la nasconde, più per impudicizia che per pudore, in questo enormemente aiutata da uno Stato che a noi siciliani – come l’Occidente con gli ebrei – fa fare il lavoro sporco. Paolo Borsellino no, lui era un uomo pulito.