L'editoriale
La marcia infinita per riconoscere lo Stato (Palestina) che non c’è
Resterà solo da chiedere alla famosa Palestina, una volta stra-riconosciuta, se vorrà, alla fine, riconoscere sé stessa. Ma, ripeto, non è il caso di pignoleggiare.
Il verbo “riconoscere”, nella lingua italiana, ha essenzialmente due distinti significati. Il primo è quello di individuare qualcuno, o qualcosa, che già si conosceva, la cui identità viene nuovamente identificata; il secondo è quello di prendere atto di qualcosa che, in qualche modo o da qualcuno, è stato o potrebbe essere messo in discussione. Concentriamoci sul secondo significato. Se una cosa è di comune dominio, è inutile riconoscerla. Nessuno dice di riconoscere che il Tevere è un fiume o che il Vesuvio è un vulcano. E, in genere, quando una cosa viene riconosciuta, basta: è finita. Che senso ha continuare a riconoscere all’infinito ciò che è già riconosciuto?
Si assiste, però, da circa mezzo secolo, a un fenomeno molto strano, che chiamerei “la lunga marcia del riconoscimento”. Un’immagine che lo potrebbe illustrare è il famoso quadro di Pellizza da Volpedo, “Il Terzo Stato”, che ritrae la fiera avanzata di una massa di proletari alla giusta conquista dei loro diritti. Nel nostro caso, l’avanzata è quella dei riconoscitori della Palestina. Prima del 1967, naturalmente, nessuno sognava di riconoscere una cosa che si chiamasse Palestina. Farlo non avrebbe significato nulla. Poi, però, uno dopo l’altro, diversi Paesi hanno cominciato a riconoscere lo “Stato di Palestina”, che, giuridicamente, ancora non esiste, ma non fa niente. In origine, a riconoscerlo furono solo i Paesi arabi, quelli comunisti e del cosiddetto Terzo Mondo, ma poi si sono aggiunti anche tanti Paesi europei e occidentali. Oggi su 193 Stati rappresentati all’Onu, ben 147 hanno riconosciuto la Palestina come Stato, ma il numero certamente salirà.
Alla “lunga marcia” si sono aggiunti, negli ultimi mesi, tanti altri improbabili “marciatori”: Regioni, Comuni, Università, assemblee di condominio. Non c’è giorno che l’elenco non cresca, come un fiume in piena. Resiste, asservito nel fragile fortino dei “non riconoscitori”, un esiguo numero di Paesi al soldo dei sionisti, ma il loro destino è segnato. Non si può andare contro la storia, non si può arrestare la “lunga marcia”: anche loro, ineluttabilmente, si arrenderanno alla realtà. Riconosceranno.
Ogni pignola domanda e puntualizzazione (per esempio: cosa vuoi fare, da grande, Palestina? Vuoi vivere “accanto a” o “al posto di”? Quali devono essere i tuoi confini? Dove vivranno i tuoi cittadini?) apparirebbe del tutto fuori luogo, una nota stonata da guastafeste. Come per ogni “lunga marcia”, ciò che conta è solo la meta, l’obiettivo finale. E “la meta è qui vicino”, cantavano i Rokes negli anni ’70, così come Joan Baez cantava “We shall overcome”.
Bisogna solo pazientare ancora un poco. Presto tutti, proprio tutti, avranno riconosciuto la Palestina, e ci sarà così “la fine della storia” (quella vera, non quella fasulla che Fukuyama aveva visto nella caduta del Muro di Berlino). Sarà terminato ogni problema, ogni conflitto, ogni litigio. Sarà finalmente arrivato il giorno in cui il lupo giocherà con l’agnello e il fanciullo poserà la mano sul nido della vipera. Resterà solo da chiedere alla famosa Palestina, una volta stra-riconosciuta, se vorrà, alla fine, riconoscere sé stessa. Ma, ripeto, non è il caso di pignoleggiare.
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