Ho avuto la fortuna, l’onore, di conoscere personalmente Yehoshua e di intervistarlo tante volte. Sempre cordiale, disponibile. E, soprattutto, coraggioso nelle sue prese di posizione. Il suo impegno civile ha sempre accompagnato la sua attività di romanziere e professore all’Università di Haifa. Questa intervista risale a dieci anni fa.
La nostra conversazione prende corpo da una considerazione che Abraham Bet Yehoshua svolge in uno dei suoi primi libri pubblicati in Italia: Elogio della normalità (La Giuntina, Firenze, 1991): «Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda da cui ogni popolo può essere affetto e in quanto portatori di anticorpi dobbiamo innanzitutto curare il rapporto con noi stessi». Chi ha molto sofferto – rileva Yehoshua – «può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. La Shoah al di là delle azioni turpi nei nostri confronti non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine”.
Tempo fa, lei fu tra gli intellettuali che sottoscrissero una lettera aperta in cui si chiedeva a Israele, alla sua leadership politica, il coraggio di riconoscere le sofferenze inflitte ai palestinesi. Quell’appello è ancora attuale?
Direi proprio di sì. E la ragione non va ricercata in un astratto senso di giustizia o di umana “pietas”. Essa affonda nel profondo della nostra identità. Per chi, come me, pensa che il sionismo è stato un ideale morale e per ciò stesso coronato dal successo, che ha portato gli ebrei da uno stato di alienazione e di dipendenza, risultato nell’odio antisemita e nella Shoah, a una piena responsabilità sul proprio destino, deve capire che gli israeliani avranno un debito morale eterno nei confronti dei palestinesi che sono stati costretti a cedere una parte della loro terra in favore del sionismo. Questo debito morale forse non potrà mai essere compensato adeguatamente in termini territoriali, ma può essere risarcito mediante altre forme di riparazione, soprattutto mostrando grande tolleranza nei confronti di coloro che hanno dovuto pagare tanto caramente il prezzo della convivenza con gli ebrei nella patria comune. È un atto di coraggio collettivo quello che chiedo a noi israeliani, sapendo che accettare di non essere le sole vittime è più difficile che lasciare i Territori.
Riconoscere l’altro da sé, la sua identità, la sua storia, è dunque un passaggio cruciale per una pace davvero condivisa?
È un banco di prova decisivo. Per tutti. Quello a cui penso è un riconoscimento reciproco che sia qualcosa di più profondo, meditato, nobile, della presa d’atto del fatto che noi israeliani e i palestinesi siamo “condannati” a vivere gli uni a fianco degli altri. Ciò vale per il riconoscimento delle rispettive identità nazionali come per un altro aspetto non meno importante e che è tornato in queste settimane alla ribalta per alcune testimonianze scioccanti di soldati impegnati nelle operazioni militari a Gaza.
Lei si riferisce alle denunce del gruppo “Breaking the Silence” (Rompere il silenzio)…
Sì, a quelle. Ciò che mi preme sottolineare è una verità fondamentale che sottende questa drammatica vicenda. Ogni comportamento che adottiamo nei confronti del “nemico” finisce per permeare anche la nostra esistenza, le relazioni interne a Israele: se tutto diventa lecito contro il “nemico”, se la cifra della nostra esistenza è quella della forza, questa “legge” non scritta ma praticata insidierà anche i rapporti tra israeliani, si propagherà all’interno, tenderà a legittimare comportamenti violenti, condotte non consone ad un Paese che rivendica con orgoglio e ragione la sua democrazia. Il fanatismo, l’intolleranza, sono nemici mortali di ogni consesso civile. Una democrazia non deve mai aver paura della verità, anche la più scomoda, né può autosospendersi in nome di una sicurezza minacciata.
A quale conclusione politica conduce questa riflessione?
Alla conclusione che la pace, che passa necessariamente attraverso la separazione di due popoli in due Stati, non è una concessione fatta ai palestinesi ma è un’esigenza vitale per un Paese, Israele, che intende preservare i suoi due caratteri fondanti: l’identità ebraica e la democrazia. Ed è in questo contesto, che diviene fondamentale il tema dei confini. La mancanza di confini fra le due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nel fare d’Israele un Paese normale. La conquista della normalità: è il sogno da realizzare, l’approdo finale, la conquista di una vita, il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari – come lo è ogni popolo – senza preoccuparci di perdere l’identità.
In Israele si discute molto sul pericolo interno, rappresentato dall’estrema destra ultranazionalista. A suo avviso esiste un nesso, e se sì quale, tra la pace e la sconfitta dell’estrema destra radicale?
La pace con i palestinesi, e la fine del regime di occupazione nei Territori, non è una gentile concessione al “nemico”, ma è la condizione fondamentale per preservare il nostro sistema democratico e quei valori che ne sono a fondamento.
Perché la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele?
Perché spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo rischia sempre più di divenire sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito, anche usare violenza all’altro da sé, sia esso una donna laica o un pacifista considerato come un traditore da schiacciare. Anche qui c’è un legame con il tema della pace e di uno Stato palestinese: quanto più i toni del dibattito sulla creazione di questo Stato si smorzano, e le reali differenze politiche sul tema scompaiono, con una sinistra che sbiadisce la sua identità e smarrisce la propria memoria storica, tanto più in Israele si risveglia un’impetuosa ondata nazionalista.
Nelle scorse settimane, lei ha tenuto un ciclo di conferenze in Italia in occasione della Giornata della Memoria. Cosa significa oggi per Israele «farsi carico» della Shoah?
Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali. Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Per essere uomini retti bisogna fare qualcosa di buono. E qualcosa di buono è anche lottare affinché i palestinesi abbiano i nostri stessi diritti.
