La paura, Mameli e domani

Sembra un paradosso, ma come tutti i paradossi dice una verità. Forse non ci siamo mai sentiti Italiani come in questi giorni duri, difficili e imprevedibili. La gente si affaccia alle finestre e canta l’inno di Mameli e del Paese, e lo canta pure in tutte le strofe, mentre da un canale all’altro della televisione, nella piena perfino tracimante delle notizie, dei collegamenti e dei commenti che si rincorrono, rimbalzano l’uno sull’altro, ridondano e a vicenda si smentiscono anche, si moltiplica l’auspicio-speranza ce la faremo, sì ce la faremo, perché come sospirava Eduardo alla fine di Napoli milionaria “adda passa’ ‘a nuttata”. Ce la faremo e da Italiani!

Ora, è perfino ovvio constatare come questo abbraccio che vuole essere collettivo e solidale nasca dalla clausura domestica, dalle case da cui non si può e non si deve uscire. La costrizione impaurita genera il bisogno di libertà e, in questo caso, fa tutt’uno con quello di sentirsi insieme agli altri, presi in un destino comune su cui far vibrare la speranza di una comunità ritrovata, finalmente tutti insieme e all’aria aperta.

Non che siano mancati precedenti, certo non numerosi e legati sempre a accadimenti che, positivi o negativi, avevano l’energia unificante di travalicare le divisioni, i conflitti e sfondare anche quel cerchio del “particulare” in cui un osservatore attento come Guicciardini, più o meno cinque secoli fa, ci vedeva rattrappiti. Un Mondiale di calcio soffiato via alla Germania e un altro alla Francia, guarda caso i nostri vicini con cui non finisce la storia degli odi e degli amori, Les Italiens, il Gran Tour, gli spaghetti, i panzer…, e poi i terremoti, le dighe che crollano e cancellano un paese, le acque altissime di Venezia.. Insomma, lo sport e le catastrofi sono stati il metronomo della nostra unità, ancorché per intervalli di emozioni fuggevoli e subito archiviate. Un’impresa in cui non sono riusciti né il Risorgimento di cui già qualcuno si preoccupava quando ricordava che fatta l’Italia c’erano da fare gli Italiani, né le ricorrenze civili – un po’ meglio, invece, quelle religiose riviste e corrette con laicismo consumistico tra panettoni, uova e colombe – né il passato resistenziale sottratto all’unanimità e diventato di parte, e forse neanche e fino in fondo il sangue del terrorismo, Piazza Fontana, Moro e Nassiriya.

Semmai, senza accorgersene gli italiani sono diventati più Italiani grazie alla televisione che magari li ha aiutati a parlare meno dialetti e più una lingua e gli ha dato anche un immaginario condiviso, Lascia o raddoppia?, La Cittadella, gemelle Kessler, Maigret, commissario Cattani, Nonno Libero, su su, fino a Don Matteo e Montalbano, e insieme li ha portati nella società dei consumi.
E forse, guardando l’ultimo periodo, hanno trovato una qualche comunanza in negativo, nel sentimento diffuso dell’antipolitica, nella protesta silenziosa, cinica, rassegnata, scettica, nella quale si è espresso un altro versante del nostro spirito, questo cementato dai riflessi pavloviani antichi nei confronti del potere, sentito come remoto e, possibilmente, di passaggio e in attesa del prossimo.
Su questa Penisola è arrivato un virus invisibile e sconosciuto e ci ha fatto sentire tutti su una scialuppa in mezzo all’oceano in tempesta, o meglio ci ha rinserrato in casa e, però, più ha rinchiuso, più ha acceso il sentimento opposto. Non ha cancellato vizi autoreferenziali, ipocrisie e egoismi, e però – senza esagerare in retorica – uno stato estremo di necessità si è intrecciato con il bisogno di condividere che si è espresso nell’affacciarsi alla finestra e cantare e nei flussi di whatsapp, post, hashtag, telefonate.. insomma, in analogico e in digitale, cercando di sfondare le pareti guardando il dirimpettaio sconosciuto fino alla sera prima, e affidandosi al potere relazionale e immateriale delle tecnologie.

Può essere un grande esorcismo di massa, e lo è anche, ma la circostanza non è un’occasione qualsiasi, una contingenza come tante altre, è la soglia necessitante e decisiva su cui va a misurarsi un intero modo di pensare la nostra vita insieme agli altri e – da Italiani che nella storia tanto hanno contribuito a quella di tutti – agli altri che stanno su questa Palla, fra le foreste che bruciano, i mari di plastica e un mondo in cui scontiamo la presunzioni di esserci sentiti al centro.
C’è uno stacco, tra un Prima e un Dopo, tra quello che gli Italiani sono stati e quello che saranno, questi giorni si stanno depositando e la contraddizione tra la paura e la tensione solidale con cui li viviamo è e deve essere un viatico per il futuro.