C’è da chiedersi in quale epoca viva una fetta importante della politica e delle parti sociali italiane. Si parla di lavoro e di economia come se fossimo ancora negli anni Settanta, ripetendo formule stanche, rivendicando diritti veri e presunti e dimenticando che ogni diritto, se non sostenuto da responsabilità, è solo retorica vuota. Si tratta lo Stato come un bancomat perenne, senza interrogarsi su chi lo riempia. Ci si illude che l’Italia sia immune dal caos globale, come se bastasse proclamare un diritto per renderlo realtà. Non ci sono mete realistiche se non quelle della sopravvivenza della propria tribù.
Intanto il mondo si trasforma, e lo fa senza riguardi. Con Trump, e ora con chi ne riprende lo stile brutale, l’America ha chiuso il libro dell’Occidente unito. Niente più alleanze, niente più valori comuni: solo vantaggi da spremere e concorrenti da aggirare. Cina e Russia? Non nemici, ma soci di fatto per spartirsi le risorse del pianeta. L’idea che le tre superpotenze possano coordinarsi per difendere i propri esclusivi interessi non è fantascienza. È l’anticamera di un nuovo ordine mondiale. E in questo ordine, l’Italia è carne da cannone.
Dipendiamo da tutto e da tutti. Non abbiamo materie prime, non controlliamo filiere, non presidiamo nulla. La nostra “transizione verde” è una favola: si regge su forniture estere di gas, litio, cobalto, terre rare. Basta una stretta o un embargo, e salta tutto. Le nostre imprese, già affaticate, non reggerebbero un altro shock: l’industria dell’auto, l’elettromeccanica, la chimica e l’ambiente verrebbero travolti, con licenziamenti a catena. E non va meglio con la logistica. Sui porti si fanno convegni e promesse, ma se le rotte cambiano e i traffici si dirigono altrove, nessuno verrà a salvare i nostri terminal. I grandi player globali non fanno beneficenza. Se conviene attraccare altrove, lo faranno. Interporti deserti, container fermi, migliaia di addetti a spasso.
La tecnologia? Altro tallone d’Achille. Siamo bravi a montare, meno a inventare. Brevetti, software, macchinari: quasi tutto arriva da fuori. Se i proprietari delle tecnologie decidono di chiuderci l’accesso, restiamo senza strumenti, come falegnami senz’attrezzi. E sulla finanza si balla sul filo. Se i colossi geopolitici creano sistemi monetari alternativi a dollaro ed euro, il nostro debito pubblico diventa una trappola. I tassi salgono, il credito si restringe, gli investimenti scappano. Chi paga? Sempre lo stesso: il lavoro.
Eppure, da noi, si continua a fingere che basti evocare la reindustrializzazione, invocare lo Stato salvatore, o scaricare colpe sull’“Europa matrigna”. Ma senza un’Europa strategica, autonoma, che difenda il lavoro e costruisca catene del valore interne, l’Italia è destinata a restare ai margini. Il mondo non aspetta chi sogna. O l’Italia si sveglia, o sarà solo un’anonima comparsa nel grande risiko globale. E le comparse, si sa, escono presto di scena.
