La sensazione che molti di noi hanno è che l’industria e la sua capacità competitiva non siano state, negli ultimi anni, al centro dell’agenda e delle politiche europee. L’attenzione è stata rivolta in maniera un po’ retorica e astratta alle due transizioni, quella energetica e quella digitale. Molta ideologia (soprattutto sul lato della riduzione delle emissioni di CO2) e poca pratica, ipertrofia regolatoria, indicazione di obiettivi spesso irraggiungibili. Non vi è stata una politica industriale comune (il caso dell’energia è emblematico) e in assenza di una forte iniziativa europea in materia i singoli Stati, specie quelli economicamente più forti, sono stati tentati, e in molti casi hanno praticato, iniziative e sostegni nazionali.
Il caso degli aiuti di stato all’industria notificati dai Paesi membri alla Commissione Europea e autorizzati dalla stessa è lì a dimostrarlo. Nel 2021 e 2022 la mole finanziaria di questi aiuti, decisi e sostenuti dai singoli Stati, è stata impressionante, favorita anche dall’allentamento dei limiti e delle regole europei nel periodo del Covid. Oltre 750 miliardi di euro di aiuti in due anni, di cui più della metà dati dalla Germania alle sue imprese industriali, il 25% dalla Francia alle sue. L’Italia si è fermata al 7% del totale degli aiuti notificati e autorizzati. Queste asimmetrie nelle politiche industriali e di sostegno alle imprese sono pericolosissime perché rischiano di mettere in crisi una delle conquiste più importanti della costruzione europea: il mercato unico.
È chiaro che il “liberi tutti” favorisce gli Stati più ricchi e più forti finanziariamente (Germania e Francia) e sfavorisce l’Italia per i suoi problemi di bilancio. È del tutto evidente che il nostro Paese ha un supremo interesse che si affermino politiche comuni europee. Anche l’Italia industriale insomma ha bisogno di più Europa e non di meno Europa. Certo di un’Unione meno burocratica e più intelligente che recuperi quell’attenzione all’industria e alla sua competitività che tutte le altre grandi aree economiche del mondo hanno.
L’industria è un bene comune. Il benessere dei cittadini, le prospettive di sviluppo e di crescita, l’occupazione, l’innovazione tecnologica, la diffusione della cultura e dell’inclusione sociale, la possibilità di mettere concretamente in atto le politiche di transizione dipendono dall’esistenza di imprese efficienti, innovative, competitive. La dimensione continentale europea è l’unica in grado, in molti settori e per molte tecnologie, di reggere il confronto con le industrie delle altre aree economicamente forti del mondo, in particolare USA Cina e altri importanti Paesi industriali asiatici come Giappone e Corea. Sia Usa che Cina hanno implementato negli ultimi anni gigantesche iniziative di politica industriale a sostegno delle loro imprese raggiungendo traguardi formidabili, si pensi all’Intelligenza artificiale, all’aereospazio, ai microprocessori.
Dinanzi a queste sfide i tre grandi Paesi industriali europei Germania, Francia e Italia devono intensificare le loro politiche di collaborazione e integrazione. Tali collaborazioni e integrazioni devono rappresentare il nucleo di una rinnovata politica industriale europea che il nuovo Parlamento e la nuova Commissione devono mettere all’ordine del giorno per rispondere alla sfida competitiva che proviene dalle altre parti del mondo. Il tema dell’energia potrebbe rappresentare il banco di prova di questo nuovo approccio. L’invasione Russia dell’Ucraina ha mostrato la fragilità di un modello basato su dipendenze dall’esterno dell’Unione. L’industria ha bisogno di energia decarbonizzata a costi competitivi. L’industria ha bisogno di prezzi stabili di questa energia legati a contratti a lungo termine detti PPA (Power Purchase Agreement).
Tali obiettivi si possono perseguire con l’espansione delle fonti rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) ma le rinnovabili da sole non sono sufficienti. Le industrie, così come gli ospedali e gli altri servizi essenziali, funzionano anche quando non c’è il sole e non tira il vento. La tecnologia degli accumuli e delle batterie è ancora in fase di messa a punto e resta molto costosa. Le energie rinnovabili vanno integrate con altre fonti energetiche capaci di predisporre un’offerta stabile, competitiva e decarbonizzata quando le rinnovabili non sono disponibili. Nella transizione questa esigenza può essere risolta dalle centrali elettriche turbogas che utilizzano una risorsa largamente disponibile nel bacino del Mediterraneo.
A tali centrali vanno applicate le tecnologie della carbon capture per essere in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione delle nostre economie. Nel giro di 10-15 anni il problema sarà risolto dal nucleare di quarta generazione, sicuro, affidabile, modulabile, meno costoso rispetto al passato. La Francia è il leader europeo di queste tecnologie su cui sta lavorando da anni. Macron ha giustamente difeso a livello europeo, con una battaglia coraggiosa e tenace, questo primato e queste tecnologie anche nei momenti in cui il peggior estremismo ambientalista voleva mettere al bando anche il nucleare di nuova generazione.
L’industria italiana e quella tedesca hanno bisogno di essere aiutate dalla Francia e dal suo primato tecnologico per l’installazione a partire dal 2030-2035 di reattori nucleari di nuova generazione sui loro territori. Nel frattempo le industrie energivore italiane e tedesche potrebbero stipulare con EDF contratti a lungo termine di energia elettrica nucleare, e quindi decarbonizzata, per coprire il periodo di tempo necessario a giungere alla realizzazione delle nuove centrali. Le grandi campagne di manutenzione condotte in Francia negli ultimi anni sulle centrali nucleari consentono a quel Paese di avere nei prossimi anni più energia elettrica da destinare all’esportazione. Questo sarebbe un formidabile esempio di cooperazione industriale europea capace di rilanciare le politiche comunitarie non a parole ma nei fatti.
