La polemica è esplosa non appena si è saputo che Tony Blair aveva preso parte, insieme a Donald Trump e Jared Kushner, a un vertice sulla ricostruzione di Gaza e che la sua organizzazione, il Tony Blair Institute, era stata marginalmente coinvolta nelle discussioni sul cosiddetto “Great Trust” (per intenderci, il progetto della Trump Riviera e del dislocamento forzato di centinaia di migliaia di palestinesi).
Una visione che il Blair Institute ha respinto con decisione, chiarendo di non aver mai sostenuto né avallato scenari simili ma di limitarsi a fornire un sostegno concreto a un piano fattibile per il futuro di Gaza, senza deportazioni. I detrattori hanno comunque gridato al neo-colonialismo, denunciando l’assenza di una rappresentanza palestinese al tavolo. Ma la loro lettura è miope e superficiale, ignora la natura e la portata della proposta blairiana. L’ex premier britannico propone un metodo pragmatico: per Gaza occorre guardare oltre l’immediata emergenza, mettere al centro lo sviluppo economico e immaginare una governance diversa, coinvolgendo anzitutto gli attori regionali più interessati a ottenere un vantaggio geopolitico dalla ricostruzione di Gaza.
La storia dimostra che discutere di ricostruzione mentre i conflitti sono ancora in corso è una forma di lungimiranza. Nel luglio 1944, mentre le bombe cadevano ancora sull’Europa, con la conferenza di Bretton Woods si definivano già le regole del futuro ordine economico. Ora come allora, la scommessa è anticipare la pace costruendo stabilità. Un punto focale dell’iniziativa blairiana è il coinvolgimento degli attori del Golfo. Per decenni, gli arabi più prossimi alla Palestina – Egitto e Giordania – hanno eluso le loro responsabilità nel “nation building” palestinese. Oggi la scommessa va fatta su Qatar, Arabia Saudita ed Emirati, Paesi che hanno interesse diretto a uno sbocco mediterraneo.
Il progetto Neom
L’Arabia Saudita, il gigante regionale, ha già mostrato l’ambizione di proiettarsi sul Mediterraneo con Neom, il mastodontico progetto da oltre 500 miliardi di dollari costruito a nord del Mar Rosso: una città futuristica di 170 chilometri nel deserto, pensata per ospitare milioni di persone e attirare capitali globali. È legittimo chiedersi se tutto ciò rischi di trasformarsi in neo-colonialismo. Ma quale alternativa concreta hanno i palestinesi? Finora l’autogoverno si è identificato con Hamas e la sua violenza. Senza un piano di sviluppo, senza investimenti internazionali e infrastrutture, l’unica prospettiva resterebbe l’occupazione israeliana a tempo indeterminato.
